domenica 30 ottobre 2011

ex ovo


odore di polvere e stantio, in questo solaio. ci sono arrivato non so come, seguendo tracce che probabilmente non lo erano. entra un raggio di sole, forse attraverso un piccolo foro tra un travetto e l’altro, forse dove una tegola s’è spostata col vento. lo intercetto con la mano, il raggio di sole; nel buio, un cerchio luminoso sul palmo, tra le linee della vita e le dita socchiuse. lo cullo, ci gioco, sorrido. poi mi guardo intorno, cercando di capire dove sono e cosa ci faccio qui, in questo posto soffocante e sedimentato di oggetti malconci e inutili.

[se non ricordo male, era una sera di fine estate, a venezia. seduti a un tavolaccio, lungo il canale de la misericordia, con davanti due bicchieri di vino rosso. tu sorridevi imbarazzata il tuo sorriso solo apparentemente innocente, inarcando il collo in quel tuo modo così sensuale.
“cosa ti aspettavi?”
“niente di più di tutto questo.”
“sei entrato nella mia vita in punta di piedi.”
“eppure mi sento come un elefante in una cristalleria.”
“non farlo.”
“è più forte di me.”
“non farlo.”
“ti ho portato un regalo.”
“davvero? cosa?”
“guarda.”
“oh. un uovo di vetro…”]

solitario, nascosto in un angolo, appoggiato su un tavolo di legno scuro e tarlato, un vecchio libro attira la mia attenzione, come se mi chiamasse, mi invocasse nel silenzio. lo prendo in mano, incuriosito. è un tomo pesante e consunto; soffio via la polvere dalla copertina, ne osservo l’immagine, leggo il titolo (guilielmi harvei - exercitationes de generatione animalivm). e d’improvviso ci sprofondo.

[dopo cena, a casa mia. le finestre sono aperte, entra l’aria fresca della notte. dopo il caffè, fumiamo una sigaretta, guardandoci negli occhi.
“a che pensi?”
“che è tutto così strano.”
“cosa? cosa è strano?”
“io e te, qui.”
“guardo dietro di te, dietro le tue spalle, perché voglio vedere dove sono i fantasmi. non li vedo, ma so che ci sono. scaccia quei maledetti fantasmi.”
“di che parli?”
“ti voglio baciare.”
“baciami.”
“voglio fare l’amore con te.”
“facciamolo.”]

il poderoso zeus, la barba folta e i capelli scompigliati, indosso un ampio chitone e una corona in testa, siede ieratico su di un plinto e regge, con la mano sinistra, un uovo. mi vede, in lontananza, mi fissa, mi guarda negli occhi (coi suoi occhi quasi tristi, di una tristezza antica e profonda), mi legge nel pensiero, mi riconosce. ha un attimo d’esitazione, accenna un sorriso (o così mi pare), aggrotta la fronte ma poi, senza scomporsi, lentamente, con la destra, solleva la metà superiore del guscio. è un’espressione di finto stupore, la sua, di paura attesa, di meditato parto, di noia superiore, quasi, quando da dentro l’uovo sgorga la vita (nelle sembianze di: un minuscolo essere umano, un fiore, una farfalla, un uccello, un ramo, un cervo, una lucertola, un ragno, un grillo, un serpente. e un pesce). ex ovo omnia.

[la prima luce dell’alba, attraverso le tende. noi due abbracciati e nudi, stanchi, sudati, a letto. la tua testa appoggiata al mio petto, ti accarezzo i capelli. in una mano stringi ancora l’ovetto di vetro soffiato. lo guardi, sospiri.
“devo andare, ora.”
“come, devi andare?”
“ho la mia vita che mi aspetta.”
“falla aspettare ancora un po’. e poi ci sono io, adesso.”
“no, non hai capito.”
“cosa non ho capito?”
“non hai capito.”
“adesso che ti ho trovata, non ti lascerò andare così facilmente.”
“tu non mi hai trovata, sono io che ho trovato te. ma ora ho bisogno di pensare a me stessa, di dedicarmi alla mia vita, ai miei problemi, ai miei sogni.”
“ma…”
“niente ma. avevo solo bisogno di passarti attraverso.”]

mi risveglio. e penso a quando incontrai eugenides, che mi svelò che non è vero che la citazione ex ovo omnia è tratta dalle metamorfosi di ovidio. che se lo inventò così, per pura suspension of disbelief. e per la dolorosa necessità di illuminare di senso ciò che evidentemente senso non ha.

giovedì 13 ottobre 2011

l’uovo cosmico


mi piacciono gli inizi, i principi; sanno di rugiada, di pane appena sfornato, di occhi stropicciati.

[“mi ricordo quando mi hai afferrato la mano, in mezzo alla gente. non me l’aspettavo.”
“mi è venuto spontaneo. e poi non ci vedeva nessuno. tu però l’hai subito ritirata, stronzo.”
“mi pareva fuori luogo e ero imbarazzato. ci conoscevamo da due ore.”
“e allora?”
“vuoi sempre avere ragione tu, vero?”
“io ho sempre ragione.”]

e mi hanno sempre affascinato le cosmogonie (a volte mi accusano di essere sadico, di usare volutamente un linguaggio pesante e ricercato. ma io sono così, una pregna parolona di quattro lettere), le storie di creazione.

[“ho dovuto farti ubriacare, per riuscire a portarti a letto.”
“mi avevi appena detto che eri fidanzata.”
“sei sempre stato così serio.”
“è nella mia natura del cazzo.”
“mi sei piaciuto da subito per quello, comunque. ti dovevo assolutamente avere, mi parevi così irraggiungibile.”
“io?”
“sì, tu.”
“un’altra preda per la tua collezione.”]

la storia della mia genesi è una storia semplice.
ricordo tutto molto bene, anche se non ci vedevo (che forse non avevo gli occhi, o ancora non li sapevo usare). non c’era nulla, e vagavo insensato nel buio denso della notte, aspettando che succedesse qualcosa, che qualcuno mi deponesse. nessun rumore, nessun colore, nessun odore. non vedendo, ho solo percepito, ovattato, un battito di ali nere. maternamente mi hanno afferrato artigli. come alito antico, poi, ho sentito il vento freddo del nord. e lì, nell’utero dell’oscurità, cullato dalla perfetta inconsistenza spazio-temporale, mi hanno lasciato embrionale e argenteo, a covarmi da solo.

[“e la scena della metropolitana.”
“la scena della metropolitana. come in un film.”
“potevi scegliere. andare a destra o sinistra, a casa o con me.”
“la gente intorno a noi, che ci passava accanto, migliaia di persone avanti e indietro, su e giù dalle scale mobili. i treni che arrivavano, si fermavano, ripartivano. ma io non sentivo nulla. immobile, vedevo solo i tuoi occhi.”
“io vedevo solo le tue labbra.”
 “ero combattuto, sai? sapevo esattamente cosa sarebbe successo. ho visto il futuro, ma ho scelto la tua bocca.”
“ne sei pentito?”
“sì, decisamente. no, decisamente.”]

sorrido, di un sorriso senza braccia e senza mani. mi riapproprio, così, della mia nascita. e idealmente cammino, a tratti deciso, a tratti più traballante, su una fune tesa tra due opposti.

[“se le cose stanno così, ci devo ripensare.”
“a cosa devi pensare, che fino a ieri hai detto che mi ami?”
“ma se le cose stanno così.”
“capisco. se le cose stanno così. come stanno esattamente, le cose?”
“che avevo un’idea diversa, del nostro futuro. ma se le cose stanno così.”]

sono una trasposizione, un transito. ho molti nomi e molte facce.
non sono solo un uovo. sono la luce dentro la luce.

lunedì 10 ottobre 2011

la quadratura dell’uovo


ho scritto un uovo.
ai vecchi tempi, quando ancora si usavano carta e penna, l’avrei disegnato (o almeno ci avrei provato, che non mi chiamo giotto).
e allora l’ho scritto. senza rendermene conto, ho visto la parola, lì, nero su bianco, impressa nitida e semplice su milioni di pixel. l’ho guardata e rimirata, nella sua forma sostantiva.
una u capiente (decisamente minuscola) e la prima o, poi quella v che è un po’ come un inferno inguinale prima dell’altra ovoidale o.

[“lo sai che ci giri sempre intorno?”
“boh. non ci ho mai pensato. può essere.”
“è così difficile, per te, arrivare al dunque?”
“dipende se è tanto lontano, questo dunque. che sono bradipo e non mi va di camminare a lungo.”
“sto parlando seriamente…”
“anche io.”]

ho scritto uovo, senza sapere dove l’uovo sarebbe potuto andare a parare.
ho scritto uovo, e mi ci sono immediatamente immedesimato.
io che: sono un uomo. sono nuovo. sono un uovo. io che, in fondo, parlo ma ancora non sono nato (questo è un omaggio, i pensieri non sono miei; sono mie le parole, sono mie le sinapsi): una contraddizione in termini, tutto e il contrario di tutto.

[“ti potrei rovinare la vita. ma non mi va di farlo, perché ti amo.”
“tocca a me?”
“cosa?”
“la battuta. è il mio turno, sul tuo copione? perché il mio è sbiadito e non riesco a leggerlo bene.”
“fanculo. sì, tocca a te.”
“me l’hai già rovinata da tempo.”]

avrei voluto che l’uovo avesse una trama, un tessuto, un testo, invece non ce l’ha, per ora (che la sua trama è l’universo).
avrei voluto inquadrarlo, l’uovo, fissarlo in un quadro (tridimensionale, come corpi che dalla tela vogliono uscire per urlare la loro presenza, la loro esistenza, la loro vita), nella sua essenza d’opera d’arte, bellezza perfetta e ineffabile. impossibile, la quadratura dell’uovo.

[“perché non dormi?”
“perché mi batte il cuore.”
“mi ferisci, così.”
“il cuore è mio.”]

in quanto uovo, devo essere covato per essere scovato.