giovedì 11 dicembre 2014

resta

we will never find the pieces to put them back together

jeffrey eugenides – the virgin suicides


io parto tra qualche ora.
le valigie sono pronte, l’itinerario pianificato, e, con la mia consueta precisione, ho fatto tutto quello che dovevo fare. attendo questo momento da mesi, da quando era caldo e tutto sembrava così lontano e impossibile. intanto ho avuto anche il tempo di raccontarmi un paio di bugie, perché non volevo che mi si insinuasse nessuno nella mente prima di partire. e invece.
resta qualcosa che mi sfugge dalle dita, una frase che finisce con una virgola.

[“ma sei sicuro di quello che dici?”
“ovviamente no”
“direi che è un ottimo punto di partenza”]

io parto e resti tu, che chissà se mi ascolti o mi hai mai ascoltato. resti tu, che chissà adesso dove sei e se è vero che mi pensi, che mi hai fatto vedere piano quello che poteva succedere dopo i fantasmi, che credevo fossi un po’ me e un po’ quello che volevo essere.
e chissà se lo sai che ogni tanto immagino che mi guardi di nascosto, e sorrido, sperando tu ti chieda se quel sorriso è per te.

[“raccontami qualcosa di te”
“da dove vuoi che inizi?”
“non importa da dove inizi, l’importante è che non finisci”]

io parto, tu resta.


mercoledì 3 dicembre 2014

non esistono gli addii

this is our last goodbye
now you should be holding me

the knife – n.y. hotel


non mi piacciono gli addii. come a tutti, immagino.
per questo, l’altro giorno, quando l’ho accompagnato all’aeroporto, l’ho lasciato lì, alla fila del check-in, ci siamo stretti in un abbraccio, gli ho detto “ci vediamo tra un paio di settimane”, guardandolo negli occhi, e me ne sono andato.
così, semplicemente, mi sono girato e me ne sono andato, senza andarmene.

[“chissà se mi pensa”
“il tuo problema è che ti ostini a voler sapere cose che è meglio non sapere”]

ci siamo conosciuti 12 anni fa, in università, ad atlanta. è iniziata così, che mi ha chiesto come sto, con quei suoi occhi veri; io devo aver risposto qualcosa tipo “bene, grazie”, e lui subito ha capito che sono italiano, con mia grande umiliazione, che nei mesi credevo di aver smussato l’accento. è iniziata così, con la sua risata piena e luminosa, un’amicizia che dura da allora ed è fatta di continui addii.

[“e adesso?”
“adesso mi sento come uno che ha perso la cosa più bella che aveva e ne troverà una ancora più bella”]

io che ho lasciato venezia e certi sogni, lui che si è sposato e i sogni li ha inseguiti con tenacia. io che ho cambiato lavoro e comprato casa, lui che è stato lasciato dalla moglie e la casa l’ha venduta. io che in fondo sto ancora cercando me stesso, lui che in fondo si è dovuto ritrovare suo malgrado.
e nel frattempo abbiamo accumulato abbracci, tatuaggi, cicatrici e addii.

[“vorrei solo capire cosa fare”
“devi solo smetterla di cercare e lasciare che il mondo accada”]

perché è così, non esistono gli addii. che di definitivo hanno solo il nome, e sopravvivono stiracchiati sulla pelle, nei ricordi, nei sospiri, negli occhi lucidi e tra i capelli bianchi.


giovedì 20 novembre 2014

ho pensato a cosa siamo

we die containing a richness of lovers and tribes, tastes we have swallowed, 
bodies we have plunged into and swum up as if rivers of wisdom, 
characters we have climbed into as if trees, fears we have hidden in as if caves.

michael ondaatje – the english patient


a volte metto un po’ di musica, mi faccio un caffè, fumo una sigaretta, mi siedo qui, insieme alla pagina vuota, sospiro, mi alzo, guardo fuori dalla finestra, mi gratto la barba, ti penso, cambio musica, accendo un paio di candele, mi risiedo, bevo un sorso d’acqua e comincio a scrivere. non ho un posto da dove iniziare e, ancor meglio, dove andare a finire.
a volte non so nemmeno io cosa voglio. o forse lo so, ma faccio finta di non saperlo, che è più facile. altre volte, invece, so che vorrei essere il testo di hyperballad.
a volte trovo dentro di me cose che sono nascoste lì da sempre.

[“ma ciao! com’è andata oggi?”]

come ieri sera, che mi sono riguardato il mio film preferito, dopo molto tempo, e ne sono uscito quasi illeso. l’ho guardato per ricordarmi chi sono. e è una cosa bella che ne sono uscito quasi illeso, che sono sempre io ma anche decisamente un altro, che volevo smettere di desiderare ma no, non è ancora il momento, aspetta, non avere sempre fretta, non avere sempre tutta questa maledetta fretta. allora ho spento la tv, dopo che è finito, sono rimasto al buio, ho contato fino a dieci, e ho pensato a cosa siamo.

[“per favore mi passi il sale?”]

siamo libri, pagine che abbiamo sfogliato e parole dimenticate, siamo le canzoni che non ricordiamo, le immagini che ci restano dietro agli occhi. siamo i passi che non fanno più rumore, i corpi che abbiamo preso, le mani che abbiamo perso. siamo le nostre domande, le risposte che non ci hanno dato o abbiamo fatto finta di non sentire. siamo segni, cicatrici, morsi. siamo una nota che salta, un momento che non ha coordinate, un attimo di speranza, un sorriso, luce.

[“stasera ci vediamo un film o facciamo l’amore?”]

poi sì, a volte vorrei nascondermi. così, per precauzione.


lunedì 10 novembre 2014

capodanno

i think about you in the moonlit night
and the stars all seem to weep
when there's so much love to give
there's never any time for sleep, yeah

beth orton – stars all seems to weep


stamattina ero all’ufficio del lavoro, in fila per chiedere la disoccupazione. una cosa di routine, una semplice formalità burocratica, ma pur sempre strana, a ormai quasi trentanove anni. la coda era lunga e, mentre ero fuori ad aspettare il mio turno, sotto la pioggia di novembre, osservavo le foglie gialle sulla strada e canticchiavo una vecchia canzone di beth orton che mi è tornata in mente in questi giorni e sembra non volermi abbandonare.

[“tutte queste cose in comune”
“sì. strano, vero?”
“bellissimo”
“grazie”]

mi guardavo intorno, vedevo l’umanità, l’ascoltavo, canticchiavo “and the stars all seem to weep”, con una specie di nodo alla gola e, come a  capodanno, mi facevo un resoconto di questi mesi, con l’illusione che domani ricomincio, e con tutti i miei buoni propositi che non rispetterò, e la prossima volta non mi faccio fregare, sapendo benissimo che mi farò fregare fregandomene.

[“cos’hai sognato?”
“non ricordo. perché?”
“mi chiamavi”
“o speravo di sognarti”]

e nel frattempo cominciava a crollarmi addosso la stanchezza. di mesi di lavoro, di un’estate lunga e piovosa, delle cose superficiali e delle loro facili delusioni, di una storia così bella e impossibile che mi ha slacciato l’anima, delle notti passate a parlare, delle persone che ti abbracciano anche senza volerlo, degli incontri e degli abbandoni, della consapevolezza che mi son ritrovato in tasca che crescendo non s’impara, ma diventa tutto più difficile.

[“non capisco”
“cosa?”
“sembra quasi che non mi vedi”
“non è colpa mia. sei tu che non esisti”]

fuori fa freddo, e piove a dirotto. esco sul balcone a fumare una sigaretta, e aspetto. a momenti dovrebbero cominciare i fuochi d’artificio.


lunedì 27 ottobre 2014

i giorni che ti fermi

i am not to speak to you – i am to think of you when i sit alone, or wake at night alone,
i am to wait – i do not doubt i am to meet you again

walt whitman – to a stranger


ci sono giorni così, che ti fermi, ma intorno tutto non si ferma. che le parole ti mancano, ma non ne hai voglia. che non c’è musica da ascoltare, e fuori è freddo, alle cinque fa già buio e non sei abituato, e un’altra sigaretta non serve a niente.
sembrano giorni semplici. il letto sfatto, una lavatrice, un piatto di pasta, il tuo odore e le pagine di un libro.
di solito ti inventi sempre qualcosa da fare, e scrivi frasi piene di virgole e congiunzioni, per non avere paura. ma poi un giorno ti fermi, metti un punto e virgola; e così un po’ cedi.

[“ma alla fine, poi, chi sei?”
“un po’ te”]

oggi mi guardavo i peli bianchi della barba, e pensavo che sarebbe bello se qualcuno ci si affezionasse, e che dovrei smetterla di sbagliare, o forse, al contrario, dovrei farlo con più coraggio, o convinzione. e mentre provavo a strapparne uno, senza guardarmi negli occhi, mi son chiesto come sarebbe sbagliare con la persona giusta, guardarsi negli occhi bevendo un caffè, o restare abbracciati un’ora senza dire niente, o annusarsi dopo l’amore, per il puro piacere di scoprirsi e fissare un ricordo, o perdersi. quelle cose così, che poi ti restano in pancia.

[“mi piace da impazzire l’incavo del tuo collo”
“è tuo”
“odio dover restituire i regali”]

ci sono giorni che sarei tentato di arrendermi, ma non voglio darmi questa soddisfazione.


venerdì 17 ottobre 2014

cartoline

che fatica innaturale perdonare a me stesso
di essere io, di essere fatto così male

max gazzè – cara valentina

ieri sono andato all’ikea con un’amica incinta, il suo pancione di cinque mesi, la sua luce splendida, e tutto quello che per troppo tempo non ci siamo raccontati.
facevamo finta, come sempre, per fare gli scemi, di essere due fidanzati in spedizione, e lei, come sempre, è riuscita a farmi ridere e a sciogliermi il nodo alla gola, e mi ha aiutato a scegliere le cornici nere per delle vecchie cartoline degli anni ’20 che, per una serie di giri strani, sono finite nelle mie mani.

[cara lisa,
ti ringrazio proprio per le tue affettuose parole, avendo un po’ di pausa voglio ricordare coloro che sono da me lontani. siamo ancora qui, mi fa male un po’ le ossa per il soffice letto preparatoci. ultimamente ho un appetito che mangerei anche i sassi. non preoccuparti se resti qualche giorno senza mie notizie]
[caro mario,
non potendo di più, t’invio queste due righe, con tanti bacioni affettuosi. io sto bene, ed ora il mal di testa mi è passato. grazie delle belle ore passate ieri assieme. ti penso sempre con grande affetto, ti bacio forte. la tua lisa che ti vuole bene, ciao]

cartoline bellissime, con le immagini di episodi della divina commedia, o dei promessi sposi, o di qualche storia mitologica, fiabe dei fratelli grimm, figure femminili ottocentesche. scritte con una calligrafia ormai quasi illeggibile, sono quello che resta della fitta corrispondenza di due innamorati. lei a casa, con la famiglia, lui a fare il servizio di leva, prima a trento, poi a piacenza, poi chissà. era l’inizio del ventennio fascista.
con la mia amica parlavamo di quanto è strana e difficile la vita, e del nome da dare al bambino, o alla bambina.

[lisetta carissima,
da alcuni giorni son privo di tue nuove, ti scrissi una lettera e spero che l’avrai ricevuta]
[mario caro,
ricevo in questo momento gradita tua, non si comprende come tu sia da lungo senza mie notizie, dato che in questi giorni ti scrissi alcune volte. forse sarà a causa degli ultimi avvenimenti]

sono vecchie, rovinate, alcune bruciacchiate. puzzano un po’ di muffa, sono state chiuse per anni in una scatola in qualche cantina. e adesso le ho io. non so nulla, o quasi, delle persone che se le sono mandate. basterebbe chiedere, sarebbe facilissimo, ma preferisco restino degli sconosciuti, preferisco immaginarli mentre si scrivevano, si leggevano, cosa pensavano, cosa potevano sentire.
e nel viaggio di ritorno, mentre ci raccontavamo ancora le nostre vite interrotte e ricominciate, la mia amica mi ha detto che invece alla fine è tutto così semplice, che a volte basta guardare gli occhi che ci cercano.

[carissimo mario,
anzitutto voglio sperare che questa mia ti trovi del tutto ristabilito, come di cuore ti auguro, poi volevo dirti che ti aspetto, e che lo so che è dura. domenica sera mi confusi e ti dissi il contrario]
[caro mario,
spero che stai bene, vero? ieri è arrivata lisa, mi ha detto che sono tre giorni che non le scrivi. non farti pregare, no?]
[caro mario,
cosa vuol dire questo silenzio troppo lavoro non è vero spero]
[amatissima lisa,
ti sia questa annuncio del mio perdono, io già ti avevo perdonato per il tuo modo di interpretare le mie parole, ora basta, non se ne parli più. il sapersi spiegare è l’unica cosa che manterrà sempre alto il nostro amore. io ti amo tanto e il mio amore non cessa per sì poca cosa]

e adesso ho i ricordi che bussano alla porta. ma, scusatemi, stasera non apro.



giovedì 9 ottobre 2014

scrivo a te, che non esisti

all i want from you is a letter 
and to be your distant lover
that is all that i can offer at this time

sylvan esso – uncatena

scrivo a te, che non esisti.
o forse esisti in tutti gli occhi che incrocio, e in tutte le persone che conosco.
oggi ti cercavo, e eri dentro una canzone dei sylvan esso, e ottobre alla fine è arrivato, anche se sembrava così lontano e continui a non esistere.

[“è così bello restare sulla tua pelle”
“baciami”
“perché dovremmo rovinare tutto?”]

per esempio mi volto a guardare cosa fai, e vedo il tuo sorriso, così luminoso che mi si stringe lo stomaco. oppure mi cade una matita e ti sento, e mi stai raccontando che è stata una giornata pesante, che al lavoro ti hanno rotto le palle, che hai fame e facciamo l’amore o ci facciamo un piatto di pasta, e che potrei essere l’uomo della tua vita, ma raccolgo la matita e forse non l’hai detto.
come quella volta che, a letto a marrakech, o a copenhagen, sudati, mi hai detto che mi ami, e qualche giorno dopo mi hai ucciso e forse che mi ami non l’hai detto.

[“ti ricordi questa canzone?”
“sì. eravamo felici”
“e perché adesso no?”
“perché siamo stufi di tornare“]

a dicembre parto, e tu vieni con me. ci sono un sacco di posti che ti voglio far vedere. mi ascolti e sono incantato dai tuoi occhi, una cosa tipo dolcezza e perversione. spegni la luce e ti avvicini, e mi sembra di conoscerti da sempre, anche se non è vero, anche se sono nuove le tue mani sulla mia barba, e la tua voce ogni volta mi sorprende.
come quella volta che ci siamo rivisti, dopo mesi. e non riuscivamo più a stare nei vestiti, ma il nostro sapore era diverso, e mi hai chiesto piano “tu chi sei” e io ti ho risposto piano “sono un altro”.

[“di che segno sei?”
“io non sono di nessuno”]

e quindi scrivo a te, che non esisti. e se esisti, dove sei.


giovedì 2 ottobre 2014

una volta, a new york

all i need's a little sign
to get behind the sun
and cast this weight of mine

air – all i need

qualche settimana prima avevo scritto alla sua assistente, per chiederle se, per caso, sarebbe stato possibile incontrarlo, visto che avrei passato qualche giorno a new york. mi ero laureato da poco, diciamo circa un anno, e avevo scritto la tesi su uno dei suoi romanzi.
a volte ci si prova, ad annusare i sogni.
lei mi rispose una cosa tipo “mi spiace, ma sarà fuori città per un impegno di famiglia”.

[“ti voglio raccontare una storia”
“che parla di te?”
“no. ma forse tra le righe”]

undici anni fa, in una giornata grigia di tarda primavera, passeggiavo per brooklyn. volevo vedere i posti dove era stato girato ‘smoke’, il film tratto da una delle sue storie più belle. era il mio ultimo giorno in città.
stavo quasi per andarmene, dovevo prendere un aereo per atlanta. ma, cercando la stazione della metro più vicina, mi sono perso. sarebbe bastato girare a destra, e invece forse sono andato a sinistra, e quindi niente, mi sono perso.
e all'improvviso vedo davanti a me un signore di mezza età, che passeggia tranquillo, col sigaro in mano e un cagnolino nero al guinzaglio.
credo di aver pensato di tutto, nel giro di un secondo. o forse mi sono solo detto “ora o mai più”.
“scusi, lei è il signor auster?”
“sì”
“piacere. io sono roberto, sono uno studente italiano e ho scritto la tesi sulla sua ‘trilogia di new york’”
“lo so”

[“alla fine non so nemmeno chi sei”
“potrei essere chi vuoi tu”
“ma chi voglio io non so se esiste”]

e così abbiamo passeggiato e chiacchierato per un quarto d’ora, forse venti minuti. lui andava in videoteca a restituire un paio di dvd, e il cane pisciava per strada.
non ricordo bene cosa ci siamo detti. ma ricordo benissimo i suoi occhi, bellissimi, che mi guardavano pieni, ma era come se fossero da un’altra parte. e forse anche io ero un altro.

[“perché mi guardi?”
“perché non mi viene in mente niente di meglio da fare”
“proprio niente?”
“niente di meglio”]

solo qualche giorno fa, leggendo il suo ‘diario d’inverno’ ho scoperto che, proprio in quel periodo, aveva da poco cominciato a soffrire di attacchi di panico.

[“sarei tentato di baciarti”
“e dopo?”
“ci penseremo dopo”]

c’è che forse io ci provo a perdermi ancora.


martedì 23 settembre 2014

oggi a venezia il cielo era perfetto

oggi a venezia il cielo era perfetto.
e non ci sarebbe bisogno di aggiungere altro, perché era perfetto. ma ho questa urgenza di scriverlo, appena rientrato in casa, stanco di una giornata importante e di un’estate densa. era perfetto, come una pausa, un respiro profondo, una mano che ti cerca.

[“che leggi?”
“le vergini suicide”
“e com’è?”
“mi fa esplodere”]

c’era quel blu, sopra i tetti, intenso e luminoso. ed era come se, per una volta, non fosse un caso. e cercavo di far finta di niente, di non pensarci, che fa tanto strano liberarsi di un pezzo di passato, dei sogni che avevamo, fa un po’ male sapere che ci ritroviamo qui, con la vita che va come vuole, e con i segni che ci lascia addosso.

[“scegline una”
“a caso?”
“chiudi gli occhi e scegline una, con la mano sinistra. fidati, sarà lei a chiamarti”
“questa”
“questa vuole dirti che ti devi liberare di tutti i pensieri che ti intasano la testa. devi vivere, senza pensarci troppo”]

non volevo più andarmene, volevo fermarmi a guardare quella luce piena che cambiava, impercettibile, continuare a guardare il cielo che per tutto il giorno è rimasto perfetto. e quindi ho aspettato, mi sono seduto in campo e c’era tutta quella gente che passava, e i ricordi che tornavano, e le labbra che ho baciato, le schiene che ho stretto, le cose come sarebbero potute essere e non sono state.
non volevo più andarmene, e poi è arrivato il tramonto. e il sole era una palla rossa, enorme, tra qualche nuvola. e allora ho preso le mie cose, mi sono alzato, e sono tornato a casa.

[“cosa vorresti essere?”
“me”]

ho un pezzo di cuore che avanza. per ora lo tengo per me.


martedì 16 settembre 2014

mi sa che è arrivato l’autunno


but how could he resist
when her dress let in the autumn sun?

emiliana torrini – autumn sun

tornando a casa in macchina, oggi pomeriggio, c’era caldo e c’era il sole. mentre mi tormentavo la barba, come sempre, e cercavo di capire cosa volesse dirmi emiliana torrini, la pioggia mi ha colto impreparato. uno scroscio improvviso, forte, di quelli che per un attimo non vedi più niente e abbassi il finestrino per annusare l’odore dell’acqua sull’asfalto, e ti verrebbe quasi voglia di fermarti e scendere e prenderla tutta in faccia.
ma c’era qualcosa, nella luce, che non era più estate.

[“senti. piove ancora”
“comincia quasi a piacermi questo rumore sul tetto”
“e noi qui”]

e quindi oggi va così, che è già metà settembre, che il tempo è passato lento e all’improvviso, che non mi aspettavo di ritrovarmelo nello stomaco, e che ho voglia di scrivere qualcosa, ma faccio una fatica boia.
ci sono giorni che costruiamo per dimenticare, e poi basta prendere in mano una lonely planet, perdersi in una città mai vista, e ritrovare tutto quello che abbiamo sognato e non tornerà. mica è facile, fare certi conti.
e ci sono cose a cui siamo tentati di non credere più, ma per fortuna, poi, c’è sempre chi si ostina a guardarti in fondo agli occhi, in silenzio.

[“che bella invenzione, le mani”
“e la lingua”
“e le labbra”
“e te”]

basta poco. basta poco per spostare lo sguardo e smettere di difendersi e di pensare che non è il momento giusto. non so a cosa serva, ma a qualcosa servirà. come questa stagione che non ho mai capito e si rifiuta di farsi capire.

 [“ma non è colpa tua”
“lo so. nemmeno tua”
“forse dovremmo ridere”
“o non averci mai creduto”]

mi sa che è arrivato l’autunno, cominciano a cadere le certezze dagli alberi.




mercoledì 10 settembre 2014

denti

l'ultimo amore 
non si scorda mai 
fino a quando non ci pensi più 

dente – giudizio universatile

l’altro giorno mi si è staccato un pezzo di dente.
stavo passando il filo interdentale, come al solito, e niente, si è staccato. e mentre lo tenevo tra le dita, guardandolo, sorpreso e un po’ perplesso, la prima cosa che ho pensato è che non c’era nessuno a cui lo potevo raccontare.

[“smettila di pensarmi”
“non ti sto pensando”
“smettila di pensare qualsiasi cosa tu stia pensando”
“sto pensando che non ti devo pensare”]

oggi sembrava estate, e quasi mi addormentavo, mentre il dentista si affannava a sistemarmi il dente rotto, e io stavo lì, stranamente tranquillo, con la bocca spalancata e il rumore dell’aspirasaliva. mi son perso ad osservare un puntino nero, in un angolo del soffitto. quanta vita, nei miei denti. il tempo che passa, i sorrisi che ho fatto e nascosto, le cose che ho morso e ancora devo mordere, le lingue che ho tentato di far mie, i pezzi che ho perso.

[“ti mangerei”
“perché?”
“per non dimenticarti più”]

ma stasera piove, e ho tutta questa fretta che mi blocca, mi ruba le parole, mi impedisce di vedermi. ho della musica nuova da ascoltare, un po’ di libri da leggere, un viaggio da organizzare, delle virgole da correggere.
senza pensarci troppo, con la lingua tocco il dente rifatto.

[“dici che sia vero?”
“cosa?”
“tu. dici che sei vero?”
“non lo so. ma potrei morderti per vedere se mi senti”]

le cose più belle iniziano così. che non sai che sono iniziate.


giovedì 4 settembre 2014

aspettiamo

show without showing
what you know without knowing

massive attack ft. martina topley bird – psyche


quindi aspettiamo.
che arrivi l’estate, riusciamo a dormire, torni l’inverno, finisca questa canzone dei massive attack, lasciandoci indenni; che il tempo passi o passi la paura.

[“ma se”
“non dire cazzate”
“sì, ma se”
“anche i fantasmi inciampano”]

oggi era una giornata nuvolosa, e settembre è arrivato in silenzio, senza troppe promesse o pretese. la giornata giusta per non arrivare al punto, anche se il punto è lì, e ci aspetta, e lo sappiamo bene. e il punto è che dobbiamo mettere le parole nell'ordine giusto, che non si può eludere la prerogativa di soggetto verbo complemento, che da certe cose non si riesce a scappare facilmente. ci inventiamo distrazioni, o scuse, o canzoni che assolutamente dobbiamo riascoltare, o libri da rileggere, che abbiamo da fare. ma vorremmo solo scivolare via, senza troppo rumore, senza dare nell'occhio, o restare impigliati in ricordi che non sappiamo più nemmeno definire.

[“la senti anche tu?”
“cosa?”
“la senti anche tu questa cosa?”
“cosa?”
“non lo so, come un'aria che ci gira attorno”
“credo di sì”
“e cos'è?”
“non lo so, ma mi pare bellissimo”]

le cose mi cadono dalle mani, mi sono versato il caffè addosso, non posso fare a meno di cantare a voce altissima quel pezzo di canzone. e il punto è che fa male. così, semplice. così semplice. e che fatica ammetterlo, e che coraggio, e basta togliere una virgola, e basta, basta cantare a voce altissima quel pezzo di canzone, riascoltarla, guardarsi, rileggersi, e il cielo è ancora nuvoloso e noi quando ci rivediamo.

[“perché ti nascondi?”
“per vedere se mi cerchi”
“e quando poi ti trovo?”
“capiresti che ne è valsa la pena”]

basta pensare al cuore della parola desiderio.


giovedì 28 agosto 2014

sogni

non so bene come dirlo.
è tutto il giorno che ci penso, ma non riesco a trovare le parole giuste. non è una bella sensazione, quella di non sapersi spiegare. non so se è stanchezza, o fame, o se sto ascoltando la musica sbagliata, o scrivo troppe volte non, e forse non è una caso, e ho finito anche il gelato. ma che importa, c’è tanto rumore attorno e è il momento giusto per passare inosservati.
e quindi mi viene una cosa tipo: sono i sogni che ci sognano.

[“è impossibile sognare qualcosa che non conosci”
“eppure eri lì, e ti sognavo”]

chi l’avrebbe mai detto. che era un’estate senza estate, che passiamo i giorni a contare i giorni, e le sigarette, e i sorrisi. un paio di candele e i múm in sottofondo, con i loro suoni piccoli e i fantasmi sulla schiena. fuori è già buio, e mica è facile raccontarsi, senza cadere nel banale, senza distogliere lo sguardo o avere momenti d’esitazione. raccontarsi, alla fine, è un incedere matematico, una somma di sottrazioni, sperando che tutto torni.
e poi mi viene un’altra cosa tipo: i sogni sanno tutto di noi, e noi niente di loro.

[“a cosa pensi?”
“a niente”
“impossibile”
“a cosa pensi”]

abbiamo tutto il tempo davanti e le soluzioni lì, a portata di mano. solo che non sappiamo vederle, o forse a volte sì, come adesso che c’è quella canzone che parte piano, col violino, il carillon, e la malinconia. e allora è tutto più chiaro, così luminoso che fa quasi male agli occhi.
ed è una cosa tipo: siamo quello che sogniamo.

[“se mi guardi così, smetto d’inventarti”]

quindi non ho una risposta, una conclusione, una certezza, se non una cosa tipo: basterebbe sapere farsi sognare.


giovedì 21 agosto 2014

venezia

oggi sono tornato a venezia.
che come sempre è un come se.
come se fosse rimasta lì, ad aspettarmi. come se non fossimo cambiati, e non avessimo disimparato a guardarci, o imparato ad avere paura. come se sapessimo fingere benissimo che tra noi non ci sono fantasmi.

[“perché non resti?”
“perché non mi va di appartenere”
“perché queste bugie?”
“perché le bugie sono verità bellissime”]

una notte di stelle cadenti, e di all i need degli air nell’aria calda. che è sempre la stessa da sedici anni, e poi vuoi non chiamarla attesa. ricordo perfettamente quando l’ho sentita per la prima volta, ricordo tempo, luogo e occhi. e anche adesso, ancora, dopo tutte queste scie di rumore, gioie e ferite, faccio una fatica enorme a non crederci. c’è chi darebbe un nome a tutto ciò, e chi di nomi si è stufato.

[“quindi vorresti dirmi che preferisci il silenzio?”
“quindi voglio dire che alcune parole non hanno più senso”
“torneranno”
“acciaccate”]

voglio solo dormire un po’, invece di raccontarmi resoconti.



domenica 10 agosto 2014

pietre

mi passava tra le orecchie magic doors dei portishead, c’è una luna piena e gialla, siamo quasi a metà agosto, e volevo parlare di desiderio. della sua geografia, della sua voce che non si riesce a nascondere, del suo esplodere lento.
volevo parlare di desiderio, e di quello che non siamo mai stati e che saremo. invece penso alle pietre.

[“andiamo a letto?”
“sì, ma non chiudere la porta”
“perché?”
“non riesco a dormire con la porta aperta. potrebbero entrare i fantasmi”]

ho questa mania di tenere sempre una pietra in tasca.
ne ho parecchie, di diversi tipi e colori, e ogni tanto ne scelgo una a caso e la porto con me. così, una cosa come un’altra, una specie di rassicurazione, una presenza, un momento di sollievo.
una pietra, un nome che ti scivola sulla lingua e un sapore che ti resta in bocca.

[“ti ho portato una cosa”
“cosa”]

ne avevo una a cui tenevo tantissimo. era la mia preferita, un’acquamarina, un po’ azzurra e un po’ verde, un po’ trasparente. un po’ me. ma qualche giorno fa l’ho persa, non so dove. so solo che era in tasca, come sempre; e poi, quando ci ho infilato la mano per toccarla, come ormai faccio abitualmente, come un gesto incondizionato, non era più lì.
l’ho cercata dappertutto: a casa, in macchina, al lavoro, nelle tasche dell’universo, tra le pagine dei libri, nelle parole dimenticate. ma niente, non c’era più.
e adesso mi immagino la sua geografia, la sua voce che non riesce a nascondermi, il suo esplodere lento.

[“ogni giorno ti dimentichi di quanto bello sei”
“e allora tu ogni giorno ricordamelo”]

forse un giorno, mentre aspetto, da un momento all'altro, sarà lei a ritrovarmi.



venerdì 1 agosto 2014

agosto

è iniziato anche agosto, che mi fa pensare ad una canzone di samuele bersani, che mi fa pensare ad un’altra canzone di samuele bersani. a quelle cose a cui vuoi credere, con ostinazione, con il ritmo lento e sincopato della speranza. come un’immagine immobile, fissa nella testa, di quello che sarebbe potuto essere, e invece pare ci sia il sole e mi tremano le dita.
e allora infilo gli occhiali, accarezzo l’accendino, il lago è blu, e aggiusto le parole. facendo un po’ finta di non essere me, ma non so quanto resisto.

[“hai ascoltato quella canzone che ti dicevo?”
“vorrei rubarti gli occhi”
“ma l’hai ascoltata?”
“no, l’ho fatta diventare il tuo odore”]

il vento è caldo, a tratti, e canta una canzone al contrario. c’è il rumore della lavatrice, delle porte che sbattono, e di tutto quello che ancora sto aspettando. e resta, nel frattempo, un’ennesima correzione, una mano sulla spalla, uno sguardo che ti legge dentro e ti fa capire che sei bello, non tanto, tantissimo.

[“e tu pensi che tutto questo sia poco?”
“forse non è poco, ma non so a cosa serve”
“è come se mi mancasse un pezzo di pelle”
“è come saperti e non averti”]

c’è che, in fin dei conti, ci si perde piano, tra la paura di scappare, la certezza di prendere la decisione migliore, la differenza tra guardarsi e cercarsi, il dubbio di fare il peggiore degli sbagli. insomma, quelle cose luminose e grandi come l’universo, come il più potente dei déjà vu, di quelli con tutti gli accenti al posto giusto.

[“che vuoi che sia, è solo un istante”
“sì, è solo un istante”
“e poi io che ne so”
“e poi non dovresti disimparare a non capirmi”]

il vento fischia, la lavatrice è finita, le porte continuano a sbattere, in sottofondo unspoken dei four tet fa bene all’anima. e io sto fermo, non mi muovo.

[“è che a volte succedono cose più grandi di noi”
“e allora tu mangiale”]

quanto è dolce l’amarezza.

domenica 20 luglio 2014

un posto

tipo quelle domeniche mattina che potresti restare a letto a dormire, e invece no. c’è da preparare il caffè, vedere se riesci a farti sentire dal mondo, pulire casa, andare a lavorare, mettere a posto i pensieri, o fermarli.
tipo quelle domeniche mattina che c’è il sole e vorresti mangiarlo. e invece un’altra cazzo di sigaretta e gorecki dei lamb che ti lecca le orecchie.

[“per esempio potresti raccontarmi una storia”
“se vuoi ti racconto di quella volta che non riuscivo a smettere d’inventarti”]

c’è quella canzone che parla di noi, che ci descrive così bene. quattro note di piano e una voce di donna, che un po’ fa male e un po’ ti viene voglia di squarciare l’universo e tirarne fuori il cuore che pulsa.
quindi è così, siamo tutto e il contrario di tutto. come dire, siamo la differenza tra il pensarci forte e il pensarci bene. e nel frattempo mi accarezzo la barba, mentre scorre quello che ci siamo detti e non, la paura di sbagliare, un altro caffè, la voglia di fare l’amore.

[“devo dirti una cosa”
“perché non mi abbracci e basta?”]

vorrei solo un posto dove appoggiare la testa.



mercoledì 16 luglio 2014

la prima lettera dell’alfabeto

è solo un altro temporale che si avvicina, un’altra notte che passa piano.
più che un’estate, questa, mi sembra una forma di incertezza, un respiro denso, una presa per il culo. ci sono i lampi tra le nuvole, i tuoni lontani, i momenti di attesa e le frasi fatte. credo non manchi proprio nulla per precipitare nel banale.
mi viene quasi da sorridere, a pensarmi qui a guardare il cielo, misurare le parole, e dosare le virgole.

[“lo so che stai cercando”
non ti rispondo.
“lo so che stai cercando, ma vorrei sapere esattamente cosa. nemmeno tu lo sai, vero?”
continuo a non risponderti, facendo finta di guardare lontano.
“vero?”
“ho sbagliato risposta troppe volte”
“ma mi spieghi perché fai così?
“così cosa?”
“ti sei creato un mondo, e ti ci sei chiuso dentro”
forse non è quello che vorresti sentirti dire da un amico.
“e tu perché non mi guardi negli occhi quando mi dici certe cose?”
“perché non ne ho il coraggio”]

una sera calda, finalmente. di quelle che la voce di sade non dovrebbe suonare fuori posto. di quelle che tutto si mischia: un po’ d’amore, un po’ di rabbia, la poca voglia che abbiamo di sentirci raccontare la verità, o parlare di realtà.
ci si prova, no? a crederci, a ricucire i pezzi di noi che negli anni ci hanno strappato o ci siamo strappati, a pensare che non sia stato inutile tutto questo guardarsi.

[“sai, forse ho trovato quello che cercavo”
“sai, forse un po’ ti invidio”
“no, ma è impossibile”
“non è impossibile, è bello. c’è una grossa differenza”
“non so dove guardare”
“comincia con lo smettere di guardarti”]

mi ritrovo ad avere così tanto tempo per me, che forse preferirei non averne.
è così che si inizia a mentire, credendo di proteggere gli altri.
e anche quando non sembra, il tempo passa.

[“dove sei?”
“sono qui. dove vuoi che sia?”
“sei qui, ma poi no”
sei in finzioni che non conosco, sei in pensieri che non mi includono, sei in altre parole.
“sono qui, stronzo”]

il dubbio è fino a che punto posso farti male.

venerdì 11 luglio 2014

ricominciare

da qualche parte bisogna pur ricominciare.
oggi c’è il sole, ed è un’estate strana. mi guardo attorno, mi guardo indietro, ma non importa dove sono, e chissenefrega dov’ero rimasto, tanto non sono mai la stessa cosa.
quante vite che ho passato, la maggior parte immaginarie. ascolto björk, fumo una sigaretta, e non mi piaccio. perché mettere insieme due pensieri e dare loro una forma dovrebbe essere facile, dovrebbe essere bello tirare le fila del discorso; invece tiro un filo di questa maglietta e si stacca un bottone.

[“adesso che ti ho trovato” mi dicevi.
“adesso che ti ho trovato…” e resta questa sospensione bella.
“quindi adesso credo che” e non finiamo mai le frasi.
“non finiamo mai le frasi, e così risolviamo il cinquanta per cento dei problemi”
“voglio essere la parola con la quale non finisci mai le frasi, e ti faccio un caffè”]

e questa cosa del ricominciare, che invece è solo un lento trasformarsi.
penso alle mie scelte, con un certo imbarazzo, e una specie di tenerezza. poi mi alzo, vado allo specchio e mi guardo in fondo agli occhi, e mi piaccio. c’è qualcosa lì che non so nemmeno io. c’è che non siamo mai pronti, per quanto ci possiamo immaginare.

[“che ne dici se ti bacio, e poi ci vediamo ancora”
“la differenza tra un ‘mi piaci’ e un ‘guarda quelle nuvole’, no?”
“sì, ma poi domani”
“poi domani mica so che tempo farà. è un’estate strana”]

quindi forse funziona così, che teniamo traccia di ciò che accade solo per farlo accadere.
tra tutti i libri che ho letto, ce n’è uno che mi si è piantato dentro. e lo so, lo so benissimo che le cose non stanno così, che la realtà è una bestia strana; ma tra tutti, tra tutti i libri, mi si è piantato dentro, e un motivo ci sarà.

[“c’è una parte di te che mi porto dentro”
“cosa mi vuoi dire, esattamente?”
“che ne dici se non torniamo più indietro?”
“che il destino ci guarda, e ride tantissimo”
“prima o poi ci vendichiamo”]

e non so perché ti sto raccontando tutto questo. forse semplicemente mi piace parlare da solo.