mercoledì 2 dicembre 2015

un pomeriggio di dicembre

so you think i'm alone?
but being alone's the only way to be

janelle monàe – cold war


ieri è arrivato dicembre, e io non dovrei essere qui. ad ascoltare janelle monàe, a bere caffè decaffeinato, con le giornate che si accorciano e si perdono, piano.

(mi chiedo da dove si parte)

stamattina c’era il sole, e non sembrava dicembre. mi fa male lo stomaco, ancora, e dovrei lasciarlo andare. che è passato troppo tempo da quando ci siamo incontrati, all’inizio di un’estate che non ha mai smesso di iniziare.

(e come si inizia a costruirsi)

comincia a fare buio ma non mi va di accendere la luce, adesso, e sono a corto di parole. l’altro giorno tornavo da venezia, era sera tardi, e mentre guidavo, in autostrada, pensavo che a un certo punto la sofferenza diventa una scusa, una sicurezza, un rifugio, e che è più facile rimanere attaccati ad un passato che non c’è, che fa più paura provare a rimettersi in gioco.

(e quando la smetteremo di diventare ricordi)

il cielo è rosso, sopra il lago. un altro tramonto, poi accendo la luce.



venerdì 27 novembre 2015

mi sono arreso

la verità è che noi non siamo mai esistiti
né esisteremo mai

bhagavadgītā


dovevo partire domani.
il volo per lo sri lanka l’avevo già prenotato tempo fa, dopo che uno dei miei migliori amici di sempre aveva finalmente accettato di venire con me. è da anni che sogno di andarci, da quando ho letto i romanzi di ondaatje ambientati nella sua terra d’origine, che descrive con intensità e nostalgia.
lavoro praticamente tutto l’anno, senza interruzione, senza nemmeno un weekend libero, è stata una stagione lunga e faticosa, e non vedevo l’ora di partire, e dovevo partire domani.

(fa freddo, questa sera)

avevo già programmato tutto, due settimane intense, impegnative, zaino in spalla e treni, autobus e taxi, attraverso lo sri lanka, sugli altopiani intorno a kandy, tra le piantagioni di tè, nelle città antiche in mezzo alla giungla, come sigiriya e anuradhapura, e poi il mio compagno di viaggio se ne sarebbe tornato in italia, e io sarei rimasto solo, l’ultima settimana, spostandomi a sud, nei villaggi sull’oceano, tipo mirissa, dove ci sono le balene.

(guardo la luna, che era piena, con le cocorosie in sottofondo)

poi io che ero incerto, che negli ultimi mesi ho avuto dei piccoli problemi di salute che non riuscivo a risolvere e mi facevano preoccupare. e il mio compagno di viaggio che un paio di giorni fa se ne viene fuori all’improvviso con “guarda, mi dispiace davvero tantissimo, non so davvero come dirtelo, ma non mi piace affatto l’aria che tira in questo periodo, è da dopo gli attentati di parigi che ci penso e, guarda, davvero non me la sento. di partire, di lasciare qui mia moglie e mio figlio, e se dovesse succedere qualcosa mentre sono via. rovinerei il viaggio a me e a te”.
e lì, davanti al suo ragionamento così razionale, non sono riuscito a controbattere, ho abbassato gli occhi, e mi sono arreso.

(vorrei dirti tutto quello che non vorrei dirti)

dovevo partire domani, ma non me la sono sentita di partire da solo. e solo adesso mi sto rendendo conto che ho dimenticato di mandarlo affanculo.


venerdì 20 novembre 2015

e tu mi guardavi

he looked up to the one cave painting
 and stole the colours from it

michael ondaatje – the english patient


mi hai chiesto cosa significa il tatuaggio che ho sul braccio, e io non ricordo cosa ti ho risposto. ma ricordo benissimo dove eravamo. seduti su una panchina di marmo appena fuori piazza duomo, a milano, lungo il viale che va verso il castello sforzesco; era quasi sera, era quasi estate, fumavo una sigaretta e cercavo di non restare in silenzio.

(novembre sta finendo)

è un nuotatore, probabilmente ti ho detto, anche se si fa un po’ fatica a riconoscerlo. e probabilmente cercavo di non guardarti, e mi accarezzavo il braccio mentre ti spiegavo che è la riproduzione di una pittura rupestre che si trova nella grotta dei nuotatori, in pieno sahara egiziano, ai confini con la libia, e che le pareti di quella caverna sono ricoperte di figure di persone che nuotano, e animali, e palme, e che quindi forse lì una volta, al posto del deserto, c’era un lago, una cosa che sembra così impossibile, e vera.

(dicono che domani arrivi l’inverno)

forse sono andato avanti a scacciare il silenzio, non ricordo, e ti ho raccontato che in questa grotta si svolge la scena più bella e commovente de “il paziente inglese”, il romanzo di michael ondaatje, il mio libro preferito, dal quale è tratto il mio film preferito. ma quello che non ti ho detto è che in quel libro, nella precisione, nella potenza e nella bellezza tagliente delle sue parole e delle sue immagini, c’è tutto quello che penso dell’amore.

(e la luce dello schermo del computer comincia a non bastare)

e tu mi guardavi.


mercoledì 14 ottobre 2015

i sogni serviranno a qualcosa

he said you’re really an ugly girl
but i like the way you play
and i died
but i thanked him

tori amos – precious things


insieme ad un agente immobiliare, una signora bionda dal piglio pratico e professionale, sono stato tutto il giorno in giro per venezia a vedere case. mi hanno accompagnato i miei genitori, anche se non erano molto d’accordo sul fatto che mi volessi comprare una seconda casa. il cielo leggermente imbronciato di una giornata d’autunno qualunque, la temperatura accettabile, la luce strana di venezia.

in sottofondo, la voce di tori amos, irreale.

in un modo o nell’altro conoscevo tutte le case che abbiamo visto, o perché ci ho abitato in passato, oppure perché ci ha vissuto qualche amico o amici di amici. avevo già fatto la mia scelta: un appartamento pratico e spazioso in centro, niente di straordinario, nessuna vista particolare, semplicemente quello che pensavo potesse fare al caso mio. avevo già fatto la mia scelta, quando l’agente ci dice che proprio lì vicino ce n’è un’altra e che, così, se vogliamo vederla, per curiosità, andiamo a vederla.

tori amos che canta precious things, la versione orchestrale, da sogno, di gold dust.

una specie di cancello di ferro battuto, all’entrata, con incastonato, tra un’inferriata e l’altra, delle grandi sfere colorate di vetro di murano. e poi dentro le stanze, spaziose, disposte in modo irregolare, su livelli sfalsati, e le camere da letto, più piccole, di sopra, in cima ad una scala a chiocciola, il pavimento alla veneziana, e le finestre e le vetrate, e tutta quella luce, e potevo vedere tutto fuori e fuori potevano vedere tutto me.
ho aperto la porta-finestra per uscire su un piccolo terrazzino di marmo bianco, mi sono seduto su una vecchia poltrona di velluto rosso, e mi son messo a guardare uno dei miei posti preferiti di venezia, il campo, lì sotto, e il canale un po’ più in là.
“questa è la casa dei miei sogni. ma chissà quanto costa”
“in effetti è più cara di quella che hai scelto. circa diecimila euro in più”
“beh, ma ce la posso fare”

poi mi sono svegliato, e mi sono detto che i sogni serviranno a qualcosa, oltre che a raccontarseli.



martedì 29 settembre 2015

la fine di settembre è un inizio

e più di tutti i giornali e i giornaletti ha successo una scritta:
in caso di necessità rompere il vetro,
e tutti i trasgressori saranno eccetera

lucio battisti – la metro eccetera


stasera fa freddo, sarà che sono stanco o che mi manchi.

ho appena finito di mangiare e di lavare i piatti, sono a casa da solo, se ne sta andando anche settembre, e non scrivo da più di un mese. ci ho pensato, a questa cosa dello scrivere, e dello scrivere di me. mi sono spaventato, mi sono fermato per paura, o per pudore.
perché mi sembrava di non riuscire ad essere sincero, mi sentivo disonesto. mi sembrava di non parlare di niente, di non essere capito, di dire l’universo senza dirlo.
ma stasera era il momento. un bicchiere di vino bianco e battisti in sottofondo, l’ultimo battisti, quello che non parla di niente, che non si capisce, che dice l’universo senza dirlo.

lo sento che non sono più abituato a scrivere, che faccio fatica, e che procedo a stento. le dita sono incerte e gli occhi, distratti, ti cercano.
è stata un’estate calda, lunga e faticosa, e l’ho passata a cercare di dimenticare, di lasciar perdere il passato, facendomene mille ragioni, più o meno buone, più o meno credibili. ho lavorato un sacco, ho fatto un sacco di bagni notturni e di cazzate, ma non sono riuscito a dimenticare.

per esempio mi sono ricordato di quando, un paio di anni fa, a fine settembre, ho conosciuto un tipo che mi piaceva, ma non l’avevo capito. mi parlava, mi cercava, sapeva come incuriosirmi, come farmi ridere, come prendermi in giro nel modo giusto, e era pieno di fantasmi. per quel motivo, forse, prendevo tempo. finché il tempo è passato, ed è rimasto solo il rimpianto.

mi piace pensare che la fine di settembre è un inizio.


martedì 18 agosto 2015

non dovrei essere qui

così mi incendi,
con bugie di suoni mi possiedi

franco battiato – è stato molto bello


non dovrei essere qui. in una sera di metà agosto, con l’estate in pausa e un altro temporale che si avvicina. con il buio fuori, le nuvole nere, le candele accese, gli occhi stanchi, i pensieri confusi e le parole che si inciampano. con la voce di battiato che complica le cose ancora di più.
non dovrei essere qui. con il ginocchio che torna a farmi male, e mi chiedo cosa voglia dirmi, e non riesco a stare fermo e non vorrei essere qui.

[“sì, ma non dirlo. mi farebbe male”
“non lo dico, ma fa male lo stesso”]

dovremmo sempre essere dove finiscono le cose. per tenerle ancora un po’ tra le dita, prima di lasciarle scivolare via, prima che abbassino gli occhi e distolgano lo sguardo, prima di girarci ancora una volta a cercarle e non vederle. ci sarà il tempo, poi, per restare fermi, per raddrizzare i ricordi, per sentirne la mancanza anche quando ci sembra di non sentirla.

[“perché mi guardi?”
“per quando non ti vedo”]

dovremmo sempre essere dove le cose iniziano. per ricordarci l’odore buono che hanno, le mani dolci, gli occhi fragili e la paura che fanno. o come ci entrano nelle narici, sotto la pelle, dentro al cuore, senza che possiamo, o vogliamo, difenderci. non le vogliamo mai imparare, le cose che iniziano, perché vogliamo solo che continuino a iniziare.

[“cosa leggi?”
“un libro che ho già letto qualche anno fa”
“io non leggo mai i libri che ho già letto”]

un giorno la smetteremo di essere sempre dove non vorremmo.


venerdì 7 agosto 2015

agosto non ha ancora detto niente

i want you the right way
i want you, but i want you to want me too

madonna with massive attack – i want you


agosto è arrivato, e non mi ha ancora detto niente.
allora parlo io, e gli racconto che non so cosa farmene di questo caldo umido che ha portato, e che dovrebbe ascoltare la voce di madonna che canta marvin gaye insieme ai massive attack. che è inutile che provi ancora a illudermi, con i bagni al lago di notte e la storia delle stelle cadenti. o che mi guardi così, facendomi credere che la realtà sia in un altro posto.

[“avrei voglia di esprimerti”]

agosto è arrivato, ed è iniziato con un terremoto, di notte, per farsi sentire anche senza dire niente. e mi ha portato una gru davanti alle finestre, proprio lì in mezzo, tra il lago e casa mia, per rovinare la bellezza a cui mi stavo abituando e che ormai rischiava quasi di passare inosservata. e adesso invece è un colpo al cuore ogni volta che guardo giù.

[“mi ricordi la bellezza, e quanto fa male”]

passa anche agosto, con le zanzare e la voglia di andare via o di restare. passano i giorni a raccontargli che lo stavo aspettando dall’anno scorso, che non era mai veramente arrivato, che era stato solo pioggia e risentimenti. passa, e mi lascia la bellezza interrotta e la voglia di ricominciare ad annusarla. e alla fine, lo so, quando andrà via dovrò ringraziarlo.

[“fermiamoci prima di raccontarci troppo e scomparire”]

non so se mi sta ascoltando, agosto, ma che gli frega. mi si attacca alla pelle e non voglio ancora lavarmelo via.



giovedì 16 luglio 2015

inventarti

i tip-toe down to the shore
stand by the ocean
make it roar at me
and i roar back

björk – violently happy


un anno fa ho cominciato ad inventarti, e adesso mi fa male il ginocchio.
devo aver fatto un movimento improvviso, a freddo, senza rendermene conto, e mi si è stirato il quadricipite sinistro, che ha messo sotto pressione il legamento, che ha iniziato a reclamare, e si è infiammato, e adesso mi fa male il ginocchio, e quasi non riesco a camminare.
solo perché ho voluto inventarti troppo.

[“perché zoppichi?”
“mi fa male il ginocchio”]

anche un anno fa c’era la voce di björk, ma continuava a piovere, ricordi? e non c’era questo caldo che si attacca alla pelle e ha l’odore del desiderio. facevo fatica ad inventarti, all’inizio, perché ancora non sapevo dove dovevi iniziare e dove finivi. poi ho capito che bastava parlarti, che nascevi così, un po’ come volevo, un po’ come volevi tu. ho quasi pensato che potevamo inventarci insieme.

[“come mai? che hai combinato?”
“ho voluto inventarti troppo”]

quanto ti ho inventato bene. che mi sembri quasi una certezza, mi sembra quasi di vederti, soprattutto nella luce della sera, o di sentirti arrivare dall’altra stanza, all’improvviso, e dici “fa caldo”, o “vuoi un caffè”, “andiamo a dormire”, o “quando mi ami?”. e io mi giro a cercarti gli occhi, le luci sono spente, e faccio fatica a trovarli anche se li sento addosso, anche se li ho sempre immaginati così luminosi e pieni.

[“e adesso?”
“adesso per un po’ devo smettere di inventarti”]

continuerei a parlarti, ma mi siedo storto, sento male al ginocchio, e decido di stare zitto.


venerdì 26 giugno 2015

quando il cielo non se ne vuole andare

so you heard i crossed over the line
do i have regrets?
well, not yet
there are some, some who give blood
i give love
i give

tori amos -  give


stasera ho scelto la voce di tori amos, il buio scende lento, il cielo non se ne vuole andare.
sarebbe da stare a guardarlo, senza pensare ad altro, senza volere a tutti i costi provare a scrivere, o a ignorare il desiderio, le mancanze e le stonature.
non è mai semplice il cielo che non se ne vuole andare.

[“cosa stai scrivendo?”
“non lo so”]

come l’altro giorno a ferrara, con quelle nuvole scure, e la luce era perfetta, come poche volte ti ricordi, e il sole si fermava sulla pelle, e il colore degli occhi era il nostro ma sembrava anche nuovo, e tutte le parole. sembrava che il cielo non se ne volesse andare, che sapesse che il tempo non è mai abbastanza per conoscersi.

[“allora perché scrivi?”
“per vedere dove vado”]

come lo sapevi tu, che mi guardavi, qualche settimana fa, senza dire niente. come lo sapevo anche io, che facevo finta di non riconoscere tutta la malinconia rinchiusa nei tuoi occhi, e tutto quello che non ci stavamo dicendo. non te ne volevi andare, e nemmeno io, e adesso, lentamente, provo a ricostruirti.

[“potresti scrivermi”
“per vedere dove andiamo?”]

quando il cielo non se vuole andare, mi fermo ad aspettarti.



lunedì 15 giugno 2015

capita

swimming in the waves of your intimacy
i'm able to offer
my love for centuries

air – sex born poison


capita che l’estate si mette in pausa, che fuori piove e non è una notte di stelle e aria calda.
capita che sembra sempre tutto fermo, anche quando non lo è, e lo sappiamo benissimo. che non ci si dovrebbe accontentare, ma a volte non abbiamo altra scelta. che c’è qualcosa che non va, ma non lo diciamo a nessuno, e continuiamo a domandarci il perché.

[“tu lo sai che adesso non dobbiamo cominciare a domandarci perché”
“perché?”]

capita di riconoscersi. capita di capire tutto ancora prima di guardarsi. e poi si inizia, lentamente, a tentoni, a ricostruirsi. sulla pelle calda, in mezzo alle labbra che si cercano, con il sapore che resta in bocca, nei momenti che ci sembrava di aver sognato, nelle canzoni che non pensavamo di riascoltare, tra le parole che non crediamo di sentire.

[“adesso preferirei non dover dire niente”
“sarebbe la non-soluzione migliore”]

capita di perdersi subito, di restare senza parole, e che va bene così.




venerdì 5 giugno 2015

la bellezza

eppure un giorno, prima o poi, anche lontano, 
ma un giorno, uno solo, giusto un istante, 
di riflesso, ci vedremo.

@valeriosordilli


è tornato anche giugno, e l’estate è esplosa all'improvviso, senza avvisarci.
come il cuore che inizia a correre senza un motivo chiaro, come gli amanti frettolosi e precoci, come un ricordo che arriva inaspettato. come la bellezza che non vediamo e che gli occhi non possono contenere.

[“non riuscivo a immaginarti”]

dopo una lunga giornata di lavoro, una sera calda e stanca, la luna non è ancora salita, ascolto ágætis byrjun dei sigur rós e mi rendo conto che la bellezza è lenta. è una candela nella penombra, una nuvola gonfia di pioggia immobile nel cielo, un libro a cui ritorni, una goccia di sudore che scende piano sulla schiena quando non ci si vuole sciogliere da un abbraccio. labbra che si cercano al buio, malinconie strane e dolorose, qualcuno che ti dice che arriverà, un giorno, prima o poi, e tu lo ascolti e ti rendi conto che la bellezza è lenta.

[“non riesco a crederci”]

la bellezza è sapere che non sai cosa sia, è avere paura e voglia di amare, è ritrovare il suo odore sulla pelle quando non ci stavi pensando. abbassare gli occhi, e poi rialzarli, e ammettere di avere sbagliato, restare senza parole, sorridere, mangiare una ciotola di ciliegie guardando nel vuoto.

[“non riuscirò a dimenticarti”]

la bellezza è sentirne la mancanza e non cercarla.
è ritrovarsi a scrivere tutto questo senza sapere perché.


giovedì 28 maggio 2015

confusione

e quante volte dovrò dire,
che mi dispiace, ma devo andare

andrea nardinocchi – un posto per me

stamattina mi hanno chiamato a controllare una cosa in una camera, al quarto piano. ho preso il telefono portatile, il passepartout, una penna, che non si sa mai, ci potrebbe sempre essere bisogno di scrivere qualcosa, e sono entrato in ascensore.
quattro piani, io che mi guardavo allo specchio, una specie di silenzio irreale, e il tempo che per un attimo non era più tempo.

 [“dove sei?”
“dove vuoi”]

succede che quando ci guardiamo tanto, non ci riconosciamo più, o ci dimentichiamo; che quando non facciamo altro che cercarci, alla fine ci perdiamo. succede così, e quasi non ce ne accorgiamo. succede che vorremmo avere un posto nostro, e invece sembra che ci resti solo nebbia negli occhi. come oggi, anche se era una giornata di fine maggio e c’era il sole e il cielo era deciso.

[“non è così semplice”
“non ho mai pensato che lo fosse”]

sembra che ci resti solo una gran confusione, come quando non riusciamo a decidere che musica ascoltare, o non abbiamo voglia di capire quello che ci dicono. come quando sappiamo benissimo che stiamo sbagliando, che non dovremmo buttare via il nostro tempo e la luce dei desideri, ma sappiamo anche che per ora va bene così, si tratta solo di lasciarci passare.

[“ma quindi, alla fine, cosa sei?”
“un posto per te”]

si è aperta la porta dell’ascensore, al quarto piano. un’occhiata veloce agli occhi, e sono uscito.


lunedì 18 maggio 2015

momenti di debolezza

sometimes i get to thinkin', baby, when i'm all alone
i could maybe make it on my own

beth orton – precious maybe


l’altra sera il cielo aveva un colore poco reale, come solo a venezia può succedere. eravamo seduti nel minuscolo cortile all’aperto di un bàcaro vicino a campo santa margherita, e parlavamo, tra un bicchiere di vino e l’altro. dopo anni, dopo una vita passata ad ignorarci, ci siamo raccontati tutto quello che non ci eravamo raccontati nemmeno allora.
solo a venezia può succedere che il tramonto è incerto ma bellissimo, e l’aria profuma di momenti di debolezza.

[“non facevo che guardarti”
“perché?”
“perché cercavo di capire”]

quelli che non riusciamo a nascondere, anche se ci proviamo, ma è una smorfia impercettibile che ci tradisce, o la luce degli occhi che sa di desiderio, di voglia di mani, labbra e carne. come quella volta che eravamo su una panchina, al buio, lungo il canale, quasi ancora sconosciuti, e non c’era nessuno ma chiunque ci poteva vedere, e non riuscivamo a resisterci e avremmo voluto solo dimenticarci o non essere lì.

[“ricordo ancora il tuo profumo”
“capita anche a me”]

quelli che ci pentiamo subito dopo, che prima ci sembrava così bello, così giusto, e poi forse non ne siamo più così sicuri. come quando ti ho detto che mi manchi, anche se sapevo che non dovevo, e non era una bugia meravigliosa, era la verità, ma potevo farne a meno. e il tuo sguardo, giustamente, era incerto e bellissimo, come il tramonto a venezia.

[“lo sai che non si torna mai indietro”
“anche se sarebbe bello”
“anche se sarebbe inutile”]

sono giorni che vivo così, a momenti di debolezza.


domenica 3 maggio 2015

un anno fa

oh, can't anybody see
we've got a war to fight
never found our way
regardless of what they say

portishead – roads

un anno fa, più o meno, mi è cambiata la vita. non faccio che pensarci, in questi giorni. penso che non è successo nulla, in fondo, che quasi nessuno se n’è accorto, e quasi non me ne accorgevo nemmeno io. è stato un leggero slittamento del cuore, una nota stonata, un graffio muto.

[“forse preferivo continuare a non sapere il tuo nome”]

ascolto i portishead, stasera, che mi consumano le orecchie. il cielo è coperto e ha una luce strana, come di primavera incazzata. suona il telefono, ed è la voce rassicurante che volevo sentire, quella che ti dice tutto senza dirti mai niente. il mondo forse fa un altro rumore, ma stasera non importa. stasera il mondo è la voce di beth gibbons, che quando attacca a cantare roads, con il suo “oh” stentato, a me ogni volta vengono i brividi, e vorrei solo chiudere gli occhi e diventare invisibile.

[“ma adesso dove andiamo?”
“da nessuna parte?”
“o dappertutto?”]

un anno fa, più o meno, ero lì e ti domandavo cosa stesse succedendo. non avevi risposte, come immaginavo. mi guardavi e basta. mi facevi tenerezza e anche un po’ paura. perché avrei voluto chiederti “ma adesso dove andiamo”, ma non ce n’era bisogno, perché sapevo benissimo che non dovevamo andare da nessuna parte, dovevamo solo provare a stare fermi, e non ci riuscivamo. dovevamo solo provare ad abbracciarci, e non ci riuscivamo.

[“a volte succede che non ho più niente da dire”
“e allora tu guardami”
“e se non ti vedo?”]

un anno fa, più o meno, i tuoi occhi erano i miei.


domenica 19 aprile 2015

quando non funzioniamo

and if one feels closed
how does one stay open

björk – stonemilker


è quel periodo dell’anno che la notte arriva più lenta, e un po’ ci si stupisce. il periodo delle giornate belle di primavera incerta, che vorresti stare al sole, ma è ancora troppo presto; che vorresti aprire gli occhi, ma forse ancora non ti va. e poi le sere sembrano un po’ vuote, come se dovesse esserci dell’altro, a riempirle, oltre alla voce rotta di björk, che non ho ben capito se l’ultimo è meraviglioso, o mi innervosisce, o non funziona, o mi fa venire voglia di spegnere la luce e nascondermi sotto il tavolo.

[“tutto quello che ti ho detto, e anche molto di più”]

al lavoro ci hanno cambiato il server, e per ripristinare tutto come prima ci è voluto qualche giorno. non funzionava niente, non potevamo fare le cose più stupide. ma a volte è inevitabile, le cose non funzionano. io, che per professione devo essere sempre sorridente, accogliente, gentile, e che per natura mi viene di solito molto bene, stavolta ho fatto davvero fatica. e un po’ mi dispiaceva e un po’ anche no. ho avuto modo di vedermi, di vedere quanto è giusto essere impazienti e imperfetti.

[“davvero, è tutto così semplice, non c’è altro da capire”]

quanto è giusto incazzarsi, con questi violini, con la voce di björk, con la voglia di restare da soli, quando non funzioniamo. con le cose da dimenticare o da trasformare in ricordi diversi, con la curiosità indomabile, il desiderio vorace, le lavatrici da fare, le chiacchiere e i silenzi, la consapevolezza che là fuori c’è un mondo che non ci conosce.

[“un giorno non sarai una negazione”]

quando non funzioniamo, possiamo provare a pensarci.


giovedì 9 aprile 2015

fantasmi

with a smile that sings
you'll be killing me tenderly

goldfrapp – stranger


ogni settimana, da ormai quasi un anno, mi metto qui a scrivere qualcosa. ci provo, lo faccio per me, innanzitutto, e poi per il mio ego.
questa volta volevo saltare, sono stanco, e sono stati giorni strani; sarebbe stato facile, e sarebbe stato bello. ma poi mi è venuta in mente una cosa.

[“a questo punto dovresti dirmi che mi porti via”
“e invece te lo chiederei”]

mi è venuta in mente una sera d’inizio estate a venezia. eravamo seduti sul gradino d’entrata del suo appartamento, fumavamo una sigaretta, imbarazzati, per un attimo in silenzio, dopo aver parlato tanto. eravamo soli, al buio, in campo non passava nessuno. lei mi guardava con occhi pieni di desiderio, e io non mi ero accorto di nulla. abbiamo cominciato a baciarci.

[“e poi cosa succederà?”
“preferirei non saperlo”]

mi voleva così tanto, e mi assaggiava con attenzione. “c’è qualcuno dietro di te.” e aveva paura dei miei fantasmi, non di quelli del passato, ma di quelli che dovevano ancora arrivare.
e io ci ho messo tutti questi anni a capirlo.

[“e adesso?”
“adesso non ci pensiamo più”]

e a capire che prima inciampiamo in quello che ci manca, e solo dopo nei ricordi.


martedì 31 marzo 2015

marzo finisce come un sogno

please don't flow so fast
you little mountain hum
i'll bottle sounds of me for you

múm – we have a map of the piano

come una vecchia canzone dei múm, un abbraccio lento, il salotto a lume di candela, l’aria diversa di inizio primavera, i cassetti chiusi, il tuo profumo di cotone, i miei occhi caldi.

[“le parole finiscono?”
“spesso”]

oggi pomeriggio ero a trento. camminavo per il centro e mi guardavo attorno, i palazzi antichi, l’atmosfera retorica, un giocoliere in piazza duomo, i muri bianchi, le nuvole minacciavano pioggia, ma era come se non fossi lì, come se mi stessi camminando dentro, senza fare rumore.

[“e poi?”
“poi se ne inventano di nuove”]

come quella volta che ti guardavo negli occhi e un po’ mi veniva da tremare, perché non sapevo cosa aspettarmi anche se non mi aspettavo niente. e poi forse non ho sentito le tue parole, o pensavi muovendo le labbra. e il tuo sguardo era distratto da qualcosa, dietro di me, e mi sono girato a guardare, ed eri tu che ti giravi a guardarmi.

[“e se non significano niente?”
“se ne inventano di altre”
“altre ancora?”
“sempre”]

marzo finisce come un sogno, dolciastro.


mercoledì 25 marzo 2015

quando non sai dove metterti

have him read “snow glass apples”
where nothing is what it seems

tori amos - carbon

oggi è uno di quei giorni che non so dove mettermi.
la primavera sembra essere iniziata, anche se piove; ho voglia di fumare e un po’ di pensieri da tenere a bada; ho voglia di un abbraccio e di cose che sanno di buono.
sarà perché da domani ricomincia la stagione, al lavoro, con i turni e gli orari improbabili. sarà che sto ascoltando la musica sbagliata nel momento giusto. sarà che non sempre siamo forti e capita di sentire il peso delle mancanze.
così non so dove mettermi, e mi bevo una birra.

[“e io?”]

gli sbagli che facciamo, per esempio, che tornano sempre indietro, che ci fissano con occhi così strani che stiamo a guardarli e non sappiamo cosa fare, aspettiamo che ci dicano qualcosa, o ce la chiedano, anche se non abbiamo risposte, anche se non sappiamo dove metterci. dentro quella canzone che riascoltiamo in loop, quando cadiamo in tentazione, per paura di restare da soli, per noia, per stupidità, e non arriviamo da nessuna parte.

[“e tu?”]

i desideri, però, quelli che non ce ne accorgiamo e crescono piano, in qualche posto, dentro, e poi quando li sentiamo è come se fossero un graffio al cuore, un abbraccio che non aspettavamo ma ha un sapore conosciuto; i desideri che ci fanno sorridere con gli occhi grandi e non sappiamo dove metterli. dentro quella canzone che riscoltiamo in loop, in una mano che ci accarezza i capelli, in tutto il bello dell’insicurezza.

[“e noi?”]

così non so dove mettermi, ma sto un po’ qui, e aspetto.


giovedì 19 marzo 2015

aggiustarsi

from the sublime to the ridiculous
in the blink of an eye
can we ever feel this impending void
have we become what we intended to avoid

moloko – absent minded friends

stavo lavando i piatti, un bicchiere mi è scivolato dalle mani, ha sbattuto contro il lavandino e si è rotto. era il mio bicchiere preferito.
come sempre quando mi succede qualcosa a cui non voglio credere, mi son guardato intorno per capire se ero davvero io e se ero lì, se stessi sognando, o se ci fosse qualcuno che mi osservava di nascosto. poi per qualche istante sono restato immobile, fissando un pezzo di vetro blu che mi è rimasto tra le mani insaponate, mentre róisín murphy cantava e l’universo mi attraversava la testa.

[“non siamo mai gli stessi, vero?”
“no, credo di no. un po’ di meno e un po’ di più”]

potrei provare ad aggiustarlo, magari con una buona colla e un po’ d’impegno ci riuscirei. magari qualcuno mi aiuta, ma non saprei a chi chiedere. ma poi che me ne faccio di un bicchiere sbeccato, che comunque non sarebbe lo stesso di prima, che senso avrebbe farlo diventare una cosa inutile. mi strofino gli occhi con il braccio, stringo il vetro tra le dita, la voce di róisín ancora in sottofondo, domani dicono ci sarà un’eclissi di sole, forse è nuvoloso e se non lo fosse come la guardo.

[“mi aiuti?”
“anche senza che tu me lo chieda”]

e se volessi aggiustare me, da che parte dovrei iniziare. come ci si aggiusta, qual è il momento migliore, quale il movimento, che parole posso usare. nessuno vuole diventare una cosa inutile, e allora ci si prova, ad aggiustarsi. tipo quando ci si incastra, o si intrecciano le dita, quando gli occhi si incontrano, e si sente un brivido sottopelle. quando si è lontani e si ha paura e si sta fermi, e si pensa e ci si pensa, quando non si sa più cosa dire, quando ci si manca ma anche un “sono qui” potrebbe sembrare di troppo. o quando non sai se crederci, ed è così ma non ti ricordi perché e non hai più bisogno di chiedertelo. quando arriva sera e si fa l’amore.

[“dimmi che ci sei”
“ci sei”]

e poi ho preso i pezzi del bicchiere rotto, ho aperto la pattumiera, e li ho buttati.


giovedì 12 marzo 2015

come se fosse facile

[lost myself in a tangent of words
can't decide what i've seen or heard

beth orton – tangent]

è tutto il giorno che sono chiuso in casa e non so più cosa inventarmi. fuori è una giornata bellissima, di quelle che il cielo è azzurro e ti sembra di toccarlo, guardo il lago e la luce che cambia ogni minuto, pubblico un selfie, giusto per capire se esisto, mi faccio un tè, misuro la febbre, sento caldo, vorrei uscire sul balcone ma l’aria è troppo fredda, accendo la tv ma non serve a niente, metto i massive attack a tutto volume, canticchio, leggo un po’ di “under the skin” di michel faber, ma è un mondo troppo strano per volerci rimanere a lungo, potrei provare a scrivere qualcosa, ma non l’ho mai fatto per due giorni di seguito, scrivo, scrivo tante cose con delle virgole in mezzo, cancello, tolgo, semplifico, vorrei lasciarmi andare, vorrei non sentirne il peso, ti penso.

[and you can't change the way she feels
but you could put your arms around her

massive attack – protection]

il sole è già sceso dietro le montagne, e alla radio passano ancora quella canzone di malika ayane.
come se fosse facile parlare di sé senza vergognarsi, dirsi senza esagerare, raccontarsi restando in equilibrio su una fune tesa sopra il nulla. o sentire alcune canzoni.
come se fosse facile far finta di non capire che certi occhi ti chiedono tutto senza chiederti niente. e non sai dove mettere la mano o se hai sbagliato, o se hai usato la parola giusta, o forse una di troppo, ma ti vedi sorridere davanti a un ricordo o a una speranza, o dentro le frasi che escono da sole.
come se fosse facile non avere paura o non pensare alla paura degli altri. ma ti ritrovi a voler credere che in fondo la paura non esiste, e che basta riuscire a pensarsi nello stesso momento.

[ma se vuoi rimani

malika ayane – adesso e qui]

come se fosse facile convivere con un cuore che corre e una mente che frena.


mercoledì 11 marzo 2015

sigarette

oh, every angel's terrible
said freud and rilke all the same

cocorosie – terrible angels


era da parecchio tempo che non mi veniva la febbre così alta. ho passato la nottata a rigirarmi nel letto e a fare strani sogni, a sudare, con la temperatura del corpo che oscillava tra i 38 e i 39 gradi, a bere acqua fresca, a immaginare situazioni inesistenti.
ed ora eccomi qui, con una specie di peso che mi sento dentro al petto e che mi fa respirare male. insomma mi sono beccato una bella bronchite, e non posso fare a meno di pensare alle troppe sigarette che ho fumato ultimamente.

[“perché mi guardi?”
“perché mi piace restare senza parole”]

è come se il mio corpo mi volesse lanciare un messaggio chiaro, senza girarci troppo attorno. ci aveva già provato durante il viaggio negli states, quando a san francisco mi era venuto un raffreddore pazzesco e una mezza bronchite, ma non gli avevo dato retta, continuando imperterrito a fumare, soffrendo ad ogni tiro.
e poi l’altra sera, mentre festeggiavo, sono uscito sul balcone in maniche di camicia, e forse ho preso freddo, ma c’erano luce, musica e risate dentro casa, e io da fuori li guardavo, mi fumavo un paio di sigarette e sentivo il petto in fiamme, e andava bene così.

[“dove vai?”
“non lo so, e non ci voglio pensare”]

e pensavo alle mie tante sigarette. quelle dopo il caffè, quelle fumate di nascosto, quelle in piazza san marco a mezzanotte, quelle in cima a una duna nel mezzo del sahara, o seduto per terra a guardare la monument valley o il grand canyon al tramonto, quelle con gli amici, una birra, un bicchiere di vino o un long island, quelle dopo l’amore, le più inutili, quelle di un villaggio senza nome nel mezzo della birmania, quelle sui libri nelle notti passate a studiare, quelle in silenzio o distogliendo lo sguardo, quelle parlando o in imbarazzo, quelle per dimenticarsi, quelle spente dalle lacrime, quelle in macchina, a macinare chilometri per raggiungere qualcuno di speciale, quelle fatte di sorrisi nascosti, le mie preferite, quelle che sono andate e non torneranno più.

[“si impara l’equilibrio?”
“solo rischiando di cadere”]

ci sono cose che finiscono, come le sigarette. altre che non sai.



lunedì 2 marzo 2015

marzo è arrivato come un sogno

i know that life is for the taking, 
so i better wise up, and take it quick

bran van 3000 – drinking in l.a.


marzo è arrivato come un sogno, senza che io me ne accorgessi.
è la settimana del mio compleanno, che non mi piace mai, che faccio sempre un po’ fatica, perché gli anni passano e in fondo sembra non succedere mai niente.

[“ci sono tante cose che non sai”
“hai tutto il tempo che vuoi”]

ne sono passati parecchi da quella volta che, solo per poter raccontare di aver realizzato un piccolo, stupido sogno, e grazie a una serie di coincidenze fortunate, mi sono ritrovato a compierne 27 a los angeles. volevo semplicemente fare come i tizi della canzone dei bran van 3000, una delle mie preferite di sempre, ossia girare a caso per la città, con un desiderio in tasca, ancora ventiseienne, bevendo gin and juice, e domandandomi cosa diavolo ci facessi lì.

[“stasera che facciamo?”
“niente”
“niente è bellissimo”]

e invece, nel frattempo, sono successe tantissime cose, così tante che alcune nemmeno le ricordo, e i sogni sono diventati più grandi; e ancora, a volte, senza rendermene conto, mi ritrovo a canticchiare a mezza voce che il tempo passa, che mi devo svegliare, veloce, e prendere la vita in mano.
come questa sera, che sono distratto, che ho voglia di scrivere ma non ci riesco bene, e non m’importa, che vorrei essere da un’altra parte ma sono qui, che vorrei correre ma aspetto, che mi tormento le mani ma c’è una calma luminosa nella mia inquietudine, che mi vedo un po’ più bello, che è passato un altro anno ma sono sempre io, e sono qui.

[“hai paura?”
“solo se non mi guardi”]

e so che certi sogni si realizzano piano, senza che ce ne accorgiamo.


venerdì 20 febbraio 2015

inventare un desiderio

i may not understand now but then again
you could talk to me or we could just sit here and daydream

me’shell ndegeocello – two lonely hearts (on the subway)


è stata un’altra settimana lunga, di quelle che racconteresti tutto, ma la tieni tra le cose che non dici a nessuno, e stasera fuori c’è nebbia.
quando vorrei non avere tutto questo tempo per me, alzo la musica, sospiro, fisso un punto inutile del muro, mi preparo un caffè, e trovo una scusa qualsiasi per non pensare. che invece è proprio quello che devo fare quando decido di sedermi qui, a raccontarmi, ad aspettare, o a inventare un desiderio.

[“posso dirti una cosa?”
“mi piace quando ti racconti senza che io te lo chieda”]

metto un vecchio cd di me’shell che non ascoltavo da tempo, e faccio fatica a riconoscermi, come facevo fatica a riconoscermi l’altro giorno, dopo che mi sono tagliato la barba. capita, ogni tanto, di fare delle cose che non vogliamo, ma non abbiamo scelta, e allora quando ci guardiamo ci sembra di non sapere più chi siamo, e ricominciamo un po’ a volerci bene e a raccontarci.

[“hai fretta?”
“no”]

e ci vogliamo bene anche se non sappiamo cosa succederà, anche se siamo stufi di aspettare. che a forza di parlarci addosso ad alta voce, sotto la doccia, mentre guidiamo, appena svegli o prima di andare a dormire, quando ci distraiamo dal mondo, non facciamo che confonderci le idee. più cerchiamo di spiegarci, più ci confondiamo. allora non resta che aspettare.

[“dove sei?”
“sono uscito a immaginarti”]

non resta che aspettarci, e inventare un desiderio.


giovedì 5 febbraio 2015

si impara a non scappare

stand a little from your hand,
broken birdie lost his voice

múm – the ballad of the broken birdie records

uno dei miei buoni propositi per l’anno nuovo era quello di pensare un po’ anche al mio corpo, e non solo alla mente. e quindi, da circa un mese, ho ricominciato a fare yoga, dopo anni da quando ero a venezia, durante il dottorato.
l’altra sera, verso la fine della lezione, come al solito, ci siamo messi a meditare e, mentre ero sdraiato a terra, con gli occhi chiusi e il respiro sempre più profondo e regolare, e l’istruttore ci diceva di lasciare tutti i problemi e i pensieri fuori dalla stanza, ho iniziato a fare un viaggio pazzesco, di quelli che ero lì ma anche da un’altra parte, che ero immobile ma mi sembrava di nuotare.

[“ciao”
“ciao”
“stai bene?”
“penso di sì”]

poi, dopo una decina di minuti, quando ero in macchina e stavo tornando a casa, con ancora sulle labbra il sorriso stupido di chi ha visto qualcosa che non ha capito e non si sa spiegare, ma va bene così, all’improvviso, pesante, da dietro un angolo buio, mi è saltato addosso un vecchio ricordo, e non me lo aspettavo, cazzo, non in quel momento, e mi voleva strangolare, e il cuore si è messo a bestemmiare.

[“e tu?”
“penso che pensavo di conoscerti”]

mi sono ritrovato seduto a un tavolo, sul palco di un teatro di venezia, con un microfono davanti, e avevo appena finito di esporre il mio lavoro a colleghi e professori. più o meno dieci anni fa, una fredda giornata di febbraio, come oggi, o forse era novembre. è passato tanto tempo, tante cose le ho cancellate, e il ricordo di quel pomeriggio è molto vago. però ho rivisto di fronte a me quelle due o tre facce distorte che mi parlavano, e mi chiedevano cose che non c’entravano nulla, e non capivo, perché non c’era niente da capire, mi volevano semplicemente mettere in difficoltà, per il puro gusto di farlo, e si guardavano sorridenti, quasi compiaciute, e la voce mi tremava un po’, all'inizio, e poi non ho avuto altra scelta che stare zitto. e ho rivisto le altre facce, quelle che mi guardavano e si guardavano incredule, e non capivano cosa stava succedendo, e provavano a sorridermi, ma non dicevano nulla.

[“è passato tanto tempo”
“o siamo noi che l’abbiamo fatto passare”]

arrivato a casa, davanti allo specchio, mi sono guardato negli occhi, ero immobile ma mi sembrava di nuotare, e ho pensato che solo con il tempo si impara a non scappare.


venerdì 30 gennaio 2015

basta un attimo

i tumble down on my knees,
fill the mouth with snow.
the way it melts, i wish to melt into you.

björk - aurora

quando stamattina mi sono svegliato, e ho aperto la finestra, e fuori tutto era bianco, e c’era quel silenzio strano che c’è solo quando nevica, sono rimasto immobile per qualche momento, trattenendo il fiato, e ho pensato che mi sarebbe piaciuto dimenticarmi. ho pensato che sarebbe bello, per un po’, non avere tutta questa consapevolezza, e non stare sempre alla ricerca dell’aggettivo perfetto, e non sentirsi il corpo addosso, e non ascoltare il rumore dei pensieri e dei desideri.

[“c’è un momento che si inizia a vivere?”
“quando non te ne accorgi”]

che non voglio sapere che basta un attimo e tutto cambia, basta una piccola distrazione involontaria mentre il tempo continua a scorrere, un foglio di carta che cade a terra senza far rumore, una parola in più, o una in meno, saltare la pagina di un libro, non sentire il pezzo di una canzone o la frase di un film perché ci è arrivata una notifica sul cellulare, perdersi un tramonto, dormire nel letto sbagliato, non capire che qualcuno ci sta chiedendo un abbraccio, o ostinarsi a chiedere un abbraccio a chi non ce lo vuole dare, guardare da un’altra parte o aver paura di guardare dalla parte giusta, anche una sola volta.

[“e c’è un momento che si smette di avere paura?”
“forse quando ne hai di più”]

poi mi sono messo a canticchiare, sottovoce, una vecchia canzone di björk, e sono andato in cucina a farmi un caffè.

[“sto provando a ricordami il tuo sapore”
“mettimi tra le cose che non dici a nessuno”]

quando stasera sono tornato a casa, e ho guardato fuori dalla finestra, il cielo quasi scuro, le nuvole rosse sopra il lago, la neve che si stava sciogliendo, il rumore del traffico lontano, ho pensato che alla fine non facciamo altro che sbagliare e ricominciare, perderci e ritrovarci.


giovedì 22 gennaio 2015

un rifugio

he’d said he’d never face the cold
without her hand there to hold.
that was long ago, when the snow was whiter.

lamb – doves & ravens


ho trovato un rifugio, in questi giorni.
è un libro di uno scrittore norvegese, karl ove knausgaard, che si intitola “my struggle”, ossia “la mia lotta”. non è un romanzo, ma una specie di racconto autobiografico in sei volumi, quasi quattromila pagine di ricordi e riflessioni, storie di famiglia e episodi di vita privata. messa così, sembra una roba di una noia poderosa, e non avrei mai iniziato a leggerlo se non me l’avesse consigliato una persona della quale mi fido ciecamente.
e niente, adesso non riesco a smettere di spiare la vita di questo tizio, anche se non succede nulla di straordinario, anche se non so fino a che punto credergli, quanto l’immaginazione sostituisca la realtà. ma alla fine non importa, perché lui se ne sta lì, e si mette a nudo, e si fa leggere, con la precisione delle sue parole e tutta la luce che ne viene fuori.

[“ecco. adesso sarebbe bello poter fermare il tempo”
“no”
“no?”
“con tutto quello che possiamo ancora far succedere…”]

c’è della neve fresca sulle montagne, e sento il rumore dei minuti che passano, mentre leggo. faccio una pausa e appoggio il libro a terra, mi alzo dal divano, mi faccio un te, e mi rendo conto che, a differenza sua, io non riesco a raccontarmi, non questa volta.

[“a volte non rispondi”
“forse ho paura di quello che potrei dire”]

perché sembra facile parlare di sé, che ci vuole. ma ci sono momenti che siamo codardi, che non ci vogliamo ascoltare, o forse ci ascoltiamo troppo, che vorremmo solo scappare, che le parole ci si fermano in pancia, e restano lì, e si gonfiano.
e allora torna utile un rifugio, come questo libro, o aprire la finestra e guardare se per caso ha iniziato a nevicare, come avevano detto, o un abbraccio, o una canzone nuova dei lamb, o controllare se mi ha scritto per dirmi di stare tranquillo, di non preoccuparmi, che andrà tutto bene, e io un po’ ci crederei, farei un sospiro, accennerei un sorriso, e risponderei che lo so, che andrà tutto bene, che non vedo l’ora di raccontare tutto.

[“andrà tutto bene”
“lo so”]

per ora fuori non nevica, fa solo freddo.



giovedì 15 gennaio 2015

serve tempo per trovarsi

we're doing fine now, yeah we do.
we don't feel sad or bad or blue,
and you know, we're never defeated
or broken inside. 
all that is fine, all that is fine.

beth orton – daybreaker


da quando sono tornato ho fatto finta di non avere tempo per pensare. o forse ho semplicemente lasciato che le cose mi accadessero, non senza andarle un po’ a cercare, lo ammetto, ma con quella sensazione che fossero lì, ad aspettarmi, desiderose di assalirmi.
proprio come le parole che sto scrivendo in questo momento, che sono nascoste, in agguato, pronte ad azzannarmi, a sezionarmi con la loro precisione chirurgica, e che cerco di tenere a bada sorseggiando una birra, prendendo in mano il cellulare, facendo ripartire in loop la stessa canzone di beth orton, controllando se, fuori dalla finestra, le stelle non abbiano bisogno di dirmi qualcos’altro.

[“sei sicuro che non ci siamo già conosciuti?”
“in una vita precedente, intendi?”
“o nella prossima”]

c’erano degli amici a cena, l’altra sera. e non so, sarà che non avevo ancora smaltito del tutto il fuso orario, o che non ero più abituato a lavorare tutto il giorno dopo quasi due mesi di pausa, ma era come essere in una specie di sogno, la musica era alta e parlavamo forte, gli occhi erano più grandi del solito, non avevo così tanta paura, non mi importava se sbagliavamo i congiuntivi, e la casa sembrava piena, e avevo voglia che lo fosse.

[“la tua pelle parla una lingua che assomiglia alla  mia”
“o la tua lingua parla alla mia pelle”]

e mentre parlavamo ero un po’ lì, con loro, a guardarli, e un po’ da un’altra parte, a pensare che serve tempo per trovarsi, e che non bastano due braccia, o una parola giusta, per non sentirsi soli. che non è sempre così facile viversi, anche se ci si desidera tantissimo. che ci facciamo complicati, a volte, solo perché lo vogliamo; ma a volte semplicemente perché siamo complicati e non possiamo fare altrimenti. che ci sono cose più grandi di noi e della nostra voglia di spaccare il mondo, e restiamo ammutoliti. che respiriamo il profumo di una pelle e vorremmo fosse nostra, ma chissà cosa si nasconde, dietro quella pelle, e ci fermiamo.

[“ti ho pensato”
“capita anche a me”
“e hai paura?”
“sempre”]

quindi pare che stasera le stelle non abbiano niente da dirmi. adesso esco io, e mi ascoltano.


mercoledì 7 gennaio 2015

vuoti e pieni

when you curl up in bed and, just you in your head now, are you livin’?

chet faker – to me

sono tornato.
e me l’ero immaginato così diverso, questo ritorno, dopo quasi un mese via di casa. mi ero immaginato qualcuno che mi aspettava, se le cose fossero andate come vanno nei libri più belli. o forse mi ero immaginato qualcuno da aspettare, che poi, nei libri più belli, sono un po’ la stessa cosa. e ho parlato così tanto a me e di me, in questo mese, che adesso mi sento come un vuoto da riempire di nuovo.
e quindi sì, sono tornato, lo stesso di prima, ma anche un po’ più vuoto e un po’ più pieno.

[“quando torni?”
“presto”
“ma quando torni chi sarai?”]

ho cominciato a svuotare la valigia, per sistemare le mie cose, e, come al solito, ho trovato il biglietto del dipartimento di sicurezza americano, che mi avvisava che hanno dovuto aprire il mio bagaglio per fare dei controlli. tutte le sante volte, tutte le santissime volte devono perquisirmi la borsa e mettere tutto sottosopra. chissà, probabilmente i barattoli di burro d’arachidi visti allo scanner sembrano bombe.
fatto sta che, forse tra un controllo e l’altro, uno dei barattoli si deve essere aperto, e mi sono ritrovato burro d’arachidi ovunque: sulle mutande nuove, sui calzini a righe, tra le pagine dei libri, sulla cartina della california, sulla bottiglietta di sabbia del deserto, nei ricordi delle sere da solo e in compagnia, appiccicato tra le parole d’amore e i propositi per l’anno nuovo.

[“mi insegni a cancellare i ricordi?”
“quando tu mi insegni a cancellare i tatuaggi”]

e mentre mi son messo a ripulire, è tornato tutto, così improvviso, così forte che mi ha riempito. come la sera di capodanno, che eravamo in uno dei ristoranti più fichi di atlanta, io, il mio amico americano e i suoi genitori. tra ostriche e vino bianco parlavamo, ci parlavamo, parlavamo così tanto che sembrava quasi di non parlare più. il racconto di un anno, che poi era il racconto di una vita, delle storie che siamo, e io non ci sono abituato a tutto questo amore, e gli occhi erano pieni.

[“non avere paura di guardarmi”
“non ho paura”
“e invece sì. abbassi sempre gli occhi, per un attimo”
“forse perché vedo me”]

e quindi sono tornato e non so se riesco a descrivere la luce del deserto e il profumo di un abbraccio vero.