martedì 3 gennaio 2017

"nascosti davanti a tutti" è un titolo meraviglioso

[prenditi 2 minuti, metti "the devil's walk" degli apparat, e leggi]

"ognuno è anche il suo incubo, non è facile accettare di piacersi dopo aver passato una vita a rifiutarsi." 

mi esplode davanti agli occhi questa frase pensata dal pazzo di uno dei racconti di "nascosti davanti a tutti" di Fabrizio Manzetti (@estrema_testa su twitter) un pazzo che a quanto pare non è pazzo; così come tutti i personaggi di questi racconti sono semplici, comuni, ordinari, ma non lo sono. storie di tutti i giorni, di vecchi e bambini, amanti, coppie in crisi, barboni, matti e prostitute. che, appunto, alla fine non sono solo storie di tutti i giorni, perché ti esplodono davanti agli occhi come piccole, inevitabili rivelazioni. 

c'è il matto innamorato che immagina "un'amante dal profumo di inchiostro" e di "mangiare nuvole e scarabocchiarci i vestiti d'erba, respirare fili d'oro del tramonto che filtrano tra i rami e tuffarci nel libro che ci costringe a sfiorare le mani"; c'è il bambino della coppia in crisi che si rifugia in un mondo tutto suo e "disegnava profeti gelatai, dita che germogliavano, principi azzurri armati di baci e spade. immaginava musei di cuori di marmo in cui non sarebbe stato vietato toccare le opere d'arte. su fogli di carta sparsi ovunque schizzava orologi con gambe che giravano veloci perché secondo lui il tempo non correva senza allenamento"; o la ragazza che aspetta un amore che non arriverà mai, "ma era l'attesa che la rendeva splendida"; oppure c'è il mio preferito, fosco, "un giovane barista e promettente scrittore, pieno di ansie, di idee confuse e coerenti nella loro confusione" che, anche lui, ha pensieri che esplodono davanti agli occhi: "oggi è tutto così più problematico: trasformare se stessi in un mondo virtuale è proiettare la vita in un cyberspazio, e siccome i luoghi virtuali in cui rintracciare stimoli sono infiniti, proprio questa infinità e questa costante ricerca di stimoli privi di appagamento diventano una prigione." 

piccole epifanie dolorose.

[e se ti sei preso la briga di leggermi fino a qui, adesso non puoi fare a meno di prenderti la briga di leggere "nascosti davanti a tutti"]

martedì 5 aprile 2016

dove si impigliano i ricordi


the mind's a crowd (the illusion of confusion)
search for the spaces (search for the)
turn around time's gone (turn around, gone)

tricky & martina topley-bird – ponderosa


ormai più di un mese fa mi sono operato al ginocchio, per rimuovere un menisco lesionato, che da tempo mi dava fastidio. una cosa di routine, semplice: al mattino presto mio papà mi ha accompagnato in ospedale, e la sera è venuto a prendermi per portarmi a casa, con la gamba sinistra immobilizzata. anche se ho dei ricordi molto precisi di quella giornata, ci sono dei pezzi che mi mancano, dei vuoti di memoria causati molto probabilmente dal calmante che mi hanno dato prima dell’operazione. tipo che, dice mio papà, prima di portarmi in sala operatoria è venuto un medico a farmi firmare una liberatoria per procedere con l’intervento, io ho firmato, mi ha chiesto se avevo bisogno di un certificato di malattia, e gli ho risposto di no, che non mi serviva perché ero momentaneamente in disoccupazione. e non ricordo nulla, se non gli occhi di mio papà quando mi stavano portando via.

(quello che non ti dico è quello che non immagini)

ero sdraiato in sala operatoria, su uno schermo di fronte a me c’era il primo piano della mia rotula, e mi sono rivisto che avrò avuto dieci anni, ero in un negozio di dischi con mio papà, che allora aveva l’età che io ho adesso. si stava avvicinando il compleanno della mamma, e volevamo farle un regalo. in quel periodo le piaceva “questione di feeling” di mina e cocciante, e il tipo del negozio ci stava spiegando che la potevamo trovare sia sull’album di mina che su quello di cocciante.

(i tuoi occhi non si imparano a memoria)

il dottore mi indica sullo schermo i frammenti del menisco che mi stanno portando via e mi spiega che hanno quasi finito, ma i miei ricordi sono impigliati in quel giorno, che mio papà mi guardava e mi diceva “dai prendiamo la cassetta di mina”, con una specie di felicità nella voce che non riconoscevo. e quando ho risposto in tono secco, quasi innervosito “ma dai, lo sai che alla mamma piace cocciante”, è come se ci fosse rimasto male, e ho ancora quella sensazione addosso.

(abbiamo tutti bisogno di piedi per terra, braccia, sogni, e aurore boreali)

poi mi hanno riportato in camera, ho aperto gli occhi, e lui era lì, ad aspettarmi, paziente, come se i suoi ricordi non si fossero mai impigliati.


sabato 23 gennaio 2016

avrei voglia di sciogliermi


can i hide there too?
hide in the hair of him
seek solice
sanctuary

björk – hidden place


fuori fa freddissimo, e la luna è piena, stanotte. bevo caffè, ascolto “vespertine” di björk a volume alto, e avrei voglia di sciogliermi.
è da quasi due mesi che non scrivo, e nel frattempo ho fatto un milione di pensieri, ho scoperto che la causa dei miei malesseri, per i quali un giorno sono finito in ospedale, sono delle complicate intolleranze alimentari, ho passato una settimana al mare in sri lanka, me ne sono innamorato, e per la prima volta in vita mia ho visto una balena, ho letto sette libri, ne ho comprati almeno il triplo, ho ascoltato mille canzoni, sto ancora pensando al prossimo tatuaggio, ho fatto un po’ di conti col passato, e ho imparato che è difficile dimenticare.

(“da qualche parte bisogna pure cominciare”
“potresti cominciare a finire”)

passavo in riva al lago, oggi, più o meno all’ora del tramonto, e pensavo a tutti i fantasmi che, spesso, sono rimasti nei nostri gesti. io ti ritrovo, per esempio, quando sono agitato e muovo la mano come se fosse un pesce che nuota, o quando mi asciugo dopo la doccia, quando mi guardo allo specchio e strizzo leggermente gli occhi, per vedere le rughette che si formano lì in parte, quando alzo le spalle e piego un po’ la testa per chiedere un abbraccio, o quando pronuncio la parola bene con un accento che non è mai stato mio.

(“dove eravamo rimasti?”
“credo da nessuna parte”)

e mentre facevo una foto al cielo di gennaio, sapevo che invece vorrei rivederti senza riconoscerti, scoprire che non sei un gesto, o non lo sei più, disabituarmi ai tuoi contorni, ogni volta. che avrei voglia di sciogliermi.

(“che fai stasera?”
“ti invento”)

stanotte è björk che mi lecca le orecchie. domani chissà.


mercoledì 2 dicembre 2015

un pomeriggio di dicembre

so you think i'm alone?
but being alone's the only way to be

janelle monàe – cold war


ieri è arrivato dicembre, e io non dovrei essere qui. ad ascoltare janelle monàe, a bere caffè decaffeinato, con le giornate che si accorciano e si perdono, piano.

(mi chiedo da dove si parte)

stamattina c’era il sole, e non sembrava dicembre. mi fa male lo stomaco, ancora, e dovrei lasciarlo andare. che è passato troppo tempo da quando ci siamo incontrati, all’inizio di un’estate che non ha mai smesso di iniziare.

(e come si inizia a costruirsi)

comincia a fare buio ma non mi va di accendere la luce, adesso, e sono a corto di parole. l’altro giorno tornavo da venezia, era sera tardi, e mentre guidavo, in autostrada, pensavo che a un certo punto la sofferenza diventa una scusa, una sicurezza, un rifugio, e che è più facile rimanere attaccati ad un passato che non c’è, che fa più paura provare a rimettersi in gioco.

(e quando la smetteremo di diventare ricordi)

il cielo è rosso, sopra il lago. un altro tramonto, poi accendo la luce.



venerdì 27 novembre 2015

mi sono arreso

la verità è che noi non siamo mai esistiti
né esisteremo mai

bhagavadgītā


dovevo partire domani.
il volo per lo sri lanka l’avevo già prenotato tempo fa, dopo che uno dei miei migliori amici di sempre aveva finalmente accettato di venire con me. è da anni che sogno di andarci, da quando ho letto i romanzi di ondaatje ambientati nella sua terra d’origine, che descrive con intensità e nostalgia.
lavoro praticamente tutto l’anno, senza interruzione, senza nemmeno un weekend libero, è stata una stagione lunga e faticosa, e non vedevo l’ora di partire, e dovevo partire domani.

(fa freddo, questa sera)

avevo già programmato tutto, due settimane intense, impegnative, zaino in spalla e treni, autobus e taxi, attraverso lo sri lanka, sugli altopiani intorno a kandy, tra le piantagioni di tè, nelle città antiche in mezzo alla giungla, come sigiriya e anuradhapura, e poi il mio compagno di viaggio se ne sarebbe tornato in italia, e io sarei rimasto solo, l’ultima settimana, spostandomi a sud, nei villaggi sull’oceano, tipo mirissa, dove ci sono le balene.

(guardo la luna, che era piena, con le cocorosie in sottofondo)

poi io che ero incerto, che negli ultimi mesi ho avuto dei piccoli problemi di salute che non riuscivo a risolvere e mi facevano preoccupare. e il mio compagno di viaggio che un paio di giorni fa se ne viene fuori all’improvviso con “guarda, mi dispiace davvero tantissimo, non so davvero come dirtelo, ma non mi piace affatto l’aria che tira in questo periodo, è da dopo gli attentati di parigi che ci penso e, guarda, davvero non me la sento. di partire, di lasciare qui mia moglie e mio figlio, e se dovesse succedere qualcosa mentre sono via. rovinerei il viaggio a me e a te”.
e lì, davanti al suo ragionamento così razionale, non sono riuscito a controbattere, ho abbassato gli occhi, e mi sono arreso.

(vorrei dirti tutto quello che non vorrei dirti)

dovevo partire domani, ma non me la sono sentita di partire da solo. e solo adesso mi sto rendendo conto che ho dimenticato di mandarlo affanculo.


venerdì 20 novembre 2015

e tu mi guardavi

he looked up to the one cave painting
 and stole the colours from it

michael ondaatje – the english patient


mi hai chiesto cosa significa il tatuaggio che ho sul braccio, e io non ricordo cosa ti ho risposto. ma ricordo benissimo dove eravamo. seduti su una panchina di marmo appena fuori piazza duomo, a milano, lungo il viale che va verso il castello sforzesco; era quasi sera, era quasi estate, fumavo una sigaretta e cercavo di non restare in silenzio.

(novembre sta finendo)

è un nuotatore, probabilmente ti ho detto, anche se si fa un po’ fatica a riconoscerlo. e probabilmente cercavo di non guardarti, e mi accarezzavo il braccio mentre ti spiegavo che è la riproduzione di una pittura rupestre che si trova nella grotta dei nuotatori, in pieno sahara egiziano, ai confini con la libia, e che le pareti di quella caverna sono ricoperte di figure di persone che nuotano, e animali, e palme, e che quindi forse lì una volta, al posto del deserto, c’era un lago, una cosa che sembra così impossibile, e vera.

(dicono che domani arrivi l’inverno)

forse sono andato avanti a scacciare il silenzio, non ricordo, e ti ho raccontato che in questa grotta si svolge la scena più bella e commovente de “il paziente inglese”, il romanzo di michael ondaatje, il mio libro preferito, dal quale è tratto il mio film preferito. ma quello che non ti ho detto è che in quel libro, nella precisione, nella potenza e nella bellezza tagliente delle sue parole e delle sue immagini, c’è tutto quello che penso dell’amore.

(e la luce dello schermo del computer comincia a non bastare)

e tu mi guardavi.


mercoledì 14 ottobre 2015

i sogni serviranno a qualcosa

he said you’re really an ugly girl
but i like the way you play
and i died
but i thanked him

tori amos – precious things


insieme ad un agente immobiliare, una signora bionda dal piglio pratico e professionale, sono stato tutto il giorno in giro per venezia a vedere case. mi hanno accompagnato i miei genitori, anche se non erano molto d’accordo sul fatto che mi volessi comprare una seconda casa. il cielo leggermente imbronciato di una giornata d’autunno qualunque, la temperatura accettabile, la luce strana di venezia.

in sottofondo, la voce di tori amos, irreale.

in un modo o nell’altro conoscevo tutte le case che abbiamo visto, o perché ci ho abitato in passato, oppure perché ci ha vissuto qualche amico o amici di amici. avevo già fatto la mia scelta: un appartamento pratico e spazioso in centro, niente di straordinario, nessuna vista particolare, semplicemente quello che pensavo potesse fare al caso mio. avevo già fatto la mia scelta, quando l’agente ci dice che proprio lì vicino ce n’è un’altra e che, così, se vogliamo vederla, per curiosità, andiamo a vederla.

tori amos che canta precious things, la versione orchestrale, da sogno, di gold dust.

una specie di cancello di ferro battuto, all’entrata, con incastonato, tra un’inferriata e l’altra, delle grandi sfere colorate di vetro di murano. e poi dentro le stanze, spaziose, disposte in modo irregolare, su livelli sfalsati, e le camere da letto, più piccole, di sopra, in cima ad una scala a chiocciola, il pavimento alla veneziana, e le finestre e le vetrate, e tutta quella luce, e potevo vedere tutto fuori e fuori potevano vedere tutto me.
ho aperto la porta-finestra per uscire su un piccolo terrazzino di marmo bianco, mi sono seduto su una vecchia poltrona di velluto rosso, e mi son messo a guardare uno dei miei posti preferiti di venezia, il campo, lì sotto, e il canale un po’ più in là.
“questa è la casa dei miei sogni. ma chissà quanto costa”
“in effetti è più cara di quella che hai scelto. circa diecimila euro in più”
“beh, ma ce la posso fare”

poi mi sono svegliato, e mi sono detto che i sogni serviranno a qualcosa, oltre che a raccontarseli.