venerdì 9 dicembre 2011

come un uovo che si schiude


sguardo all’orizzonte; ho il cuore sfuocato.
non solo per colpa di quei nuvoloni neri, una minaccia gonfia di pioggia.
è autunno inoltrato, qui nella valle. sebbene durante il giorno faccia ancora caldo, lo si capisce dalle foglie delle betulle ormai ingiallite, che risplendono d’oro sul verde profondo del palmeto e nel cielo azzurro, talmente terso che sembra vivere, respirare, fremere, e dalle nuvole che avanzano, lente e inesorabili, in lontananza.
cammino lungo il sentiero che costeggia il piccolo fiume, tra olivi, piante di argan, alberi di mandarini e aranci, noci, fichi, mandorli e melograni.
col freddo, quando la stagione è quella giusta, quando il frutto è maturo, il melograno si stacca dal ramo e, come un uovo che si schiude, dopo che a lungo è stato covato, la buccia, lievemente rugosa, ambrata, arrossata, si crepa, si spezza, si spacca. dentro il frutto aperto, il segreto di una miriade di chicchi lucenti, dolci e succosi. rossi e preziosi come il tramonto nel deserto.

[questa è la storia di un cantastorie.
questa è la storia di un ragazzo che arriva da un posto sconosciuto e lontano.
lavora nella piazza dei morti, insieme alle anime di tutti quelli che prima di lui sono passati di qui. milioni di anime, visibili e invisibili, di tutto il mondo, di tutti i mondi.
ogni sera, all’imbrunire, quando il cielo diventa meraviglioso e triste. quando il rosa si fa rosso. quando dalle bancarelle si alza il fumo acre della legna e della carne che cuoce. quando il muezzin salmodia estatico il suo richiamo al divino, e il profilo del minareto si delinea controluce come un fantasma immobile e imponente. quando le grida dei venditori risuonano stanche e la gente ha più voglia di sognare. allora lui comincia a raccontare, a cantare. le persone, incuriosite, gli si radunano attorno, in cerchio, dapprima distratte, poi sempre più rapite.
le sue sono storie antiche, della notte dei tempi, leggende che parlano di oasi e deserti. e figure di uomini e animali, per magia, compaiono, danzando sospese nell’aria. vive, presenti.]

ne raccolgo uno; ho il cuore infuocato.
lo guardo e ricordo. che una volta qualcuno mi raccontò (non so più chi, un saggio incontrato per strada o uno dei miei maestri), una storia dal sapore antico (forse quell’uomo se l’era inventata; in tutti i libri che ho letto, non ne ho mai trovato riferimento).
nei giardini del paradiso, là dove tutto era grazia, armonia, bellezza, creati da dio in un afflato di buone intenzioni, c’erano una volta e vivevano felici e contenti il primo uomo e la prima donna con tutti gli animali e tutte le piante. la perfezione è noia, a quanto pare, e un giorno il serpente, il più meschino tra gli animali, l’immancabile cattivo della migliore delle storie, riuscì a convincere la donna ad assaggiare il frutto proibito. lei cadde in tentazione, trascinò l’uomo con sé nell’abiezione, e iniziò ad essere invidiosa della purezza che le altre creature dell’eden avevano conservato. quindi, meschina, maliziosamente seducente, le invitò, strizzando l’occhio, a mangiare quella mela. cedettero tutte, tutte tranne la fenice, che si era sempre nutrita solamente di chicchi di melograno e, altera nel suo piumaggio infuocato, si rifiutò sdegnosamente di assaggiare altro. e così, per premiarla, dio decise di donarle l’immortalità: ogni cinquecento anni, l’uccello di fuoco spira tra le fiamme delle sue stesse ali di porpora e si trasforma in un uovo dal quale, poi, fulgida e fiera, rinasce a nuova vita. cantando.

[questa è la storia di un cantastorie.
questa è la storia di un bambino che abitava in un villaggio dimenticato, alle porte del deserto, in un bozzolo di casa di paglia e fango.
non parlava, ma amava ascoltare con attenzione, imparare a memoria le nenie delle vecchie che lavoravano nei campi e negli orti, lungo il fiume, e i racconti dei vecchi, racconti di dune rosse, carovane e viaggi impossibili in città lontane e mitiche, racconti di giardini del paradiso, animali parlanti e spiriti della natura.
non parlava, il bambino, ma cantava, con voce ferma, e inventava immagini e trame.
non parlava mai, nemmeno quando cominciò a diventare più grande, nemmeno coi tanti maestri che ebbe la fortuna di incrociare lungo la via che lo portò, nel corso degli anni, fino alla grande città rosa.
non parlava, ma leggeva, studiava, e cantava.]

mi assale un dubbio; ho il cuore sbagliato.
perché (ma non sono sicuro) mi sa che c’è un’altra storia (l’ho letta da qualche parte? ho semplicemente perso il controllo delle associazioni di pensiero?) che dice che il frutto che il serpente tentatore offrì alla donna fosse proprio un melograno.
mi siedo su un sasso, respiro a fondo, affannato, e vedo affascinanti e nostalgiche (quasi da mal di pancia da mancanza indefinita) connessioni con il mito. dove tutto è il contrario di tutto, tutto è, al contempo: bianco e nero; bellissimo e tremendo; vita e morte; erotismo e catastrofe.

[questa è la storia di un cantastorie.
questa è la storia di una ragazzo che cercava la sua anima cantandola nella grande piazza dei morti. sotto gli occhi attenti e indagatori di persone vicine e distanti.
era una calda sera d’estate. e mentre creava mondi, assorto, distaccato ed estatico, sentì su di sé uno sguardo diverso, sentì su di sé una tristezza nascosta e sconosciuta. sentì su di sé la bellezza di due occhi verdi, incantati, imploranti, di un viso dolce e di capelli biondi e morbidi come la seta. e interruppe il canto, si ammutolì, spaesato.]

aspetto la sera; ho il cuore sgraziato.
come se non sentissi abbastanza, tutto quello che c’è da sentire. mentre il cielo si fa più scuro, mi rialzo e continuo lungo il sentiero sabbioso, accompagnato dal canto del ruscello e di migliaia di uccelli che si chiamano, ignari e imperterriti, tra i rami degli alberi.
vado a tentoni, vado a memoria. l’ho letta più di una volta, quella storia. una ragazzina, poco più che una bambina, persefone giocava con le sue amiche, su un prato, a raccogliere fiori. da lontano la osservava, cupido e bramoso, ade, il re degli inferi, signore dell’oltretomba. un boato, un terremoto, e la terra si apre; le ragazze scappano spaventate e urlanti; persefone s’inciampa nella sua veste candida, cade, cade nell’abisso che le si spalanca sotto i piedi; repentino, a bordo di un carro infuocato trainato da bestie infernali, ade la afferra, la salva, la porta con sé nel suo regno oscuro. lei, con gli occhi sgranati, con sguardo incredulo, spaventato e supplicante, vede la terra richiudersi, lassù, in alto. le sembra di morire, si lascia morire, per giorni, per mesi, mentre ade tenta inutilmente di sedurla, e la madre, demetra, in preda al dolore più antico, vaga invano alla sua ricerca, in lungo e in largo per il mondo sterile e desolato. sei semi di melograno, solo sei semi di melograno mangia svogliatamente persefone, seduta immobile sul suo trono non voluto. così, silenziosa, muta e smunta la trova la madre. la vorrebbe portare via con sé subito, subito. ma chi assaggia i frutti degli inferi è condannato a rimanervi per sempre. ride, il diabolico ade; s’infuria, demetra dal cuore infranto. solo l’intervento del supremo zeus ristabilisce l’ordine: per sei mesi l’anno la ragazza tornerà a casa della madre demetra (e la terra rinascerà), ma per sei mesi l’anno dovrà restare al fianco del marito ade, come sua sposa (e il mondo ripiomberà nel buio). tace, persefone d’ombra e di luce.
il tramonto è un oceano rosso sangue.

[questa è la storia di un cantastorie.
questa è la storia di un ragazzo che avrebbe voluto parlare tutte le lingue del mondo. di un ragazzo che avrebbe voluto vivere tutte le storie che aveva immaginato e creato, o anche solo una. che avrebbe voluto avere un paio d’ali per cantare volando. assaggiare il suo cuore per conoscerlo, conoscere l’inconoscibile, sfidare l’impossibile, amare lei e i suoi occhi smeraldo, fino in fondo, fino alla fine, sul pavimento caldo della piazza dei morti, sotto gli sguardi di tutti, per poi portarla con sé, via, in braccio. consolarla cantandole la storia del confine tra la vita e la morte, lungo la volta del desiderio.
la guarda, solo un istante: “t’aspettavo”.  poi si volta, prende le sue poche cose e, senza guardarsi indietro, s’incammina, lento, nella notte. il viaggio è lungo, il deserto è lontano e lo aspetta.]

come un melograno; ho il cuore sgranato.
sono stanco ed è tardi. le luci del paese sono ancora distanti, mangio gli ultimi semi del frutto che ho raccolto nel pomeriggio, e continuo a camminare. sopra di me, netta, la via lattea. la luna a metà, più in basso, sembra un guscio d’uovo frastagliato, appoggiato al cielo, abbandonato nel suo nido.
un bagliore, laggiù, e il rantolo di un tuono. all’improvviso vedo una figura, nella notte. una figura alata, nera e cangiante, indefinita, incombente. brividi mi percorrono il corpo, da capo a piedi. sono solo, ne sono sicuro, non c’è nessuno. eppure quell’ombra, con voce misteriosa e lontana, mi chiama per nome. forse è la voce del deserto, e forse significa che sto cominciando a capire qualcosa della vita.
a tentoni, brancolo nel buio della valle. i miei maestri mi hanno insegnato a cercare le costellazioni e la stella polare per avere punti di riferimento, per orientarmi. ma io, adesso, ho bisogno solo di stelle cadenti.

domenica 30 ottobre 2011

ex ovo


odore di polvere e stantio, in questo solaio. ci sono arrivato non so come, seguendo tracce che probabilmente non lo erano. entra un raggio di sole, forse attraverso un piccolo foro tra un travetto e l’altro, forse dove una tegola s’è spostata col vento. lo intercetto con la mano, il raggio di sole; nel buio, un cerchio luminoso sul palmo, tra le linee della vita e le dita socchiuse. lo cullo, ci gioco, sorrido. poi mi guardo intorno, cercando di capire dove sono e cosa ci faccio qui, in questo posto soffocante e sedimentato di oggetti malconci e inutili.

[se non ricordo male, era una sera di fine estate, a venezia. seduti a un tavolaccio, lungo il canale de la misericordia, con davanti due bicchieri di vino rosso. tu sorridevi imbarazzata il tuo sorriso solo apparentemente innocente, inarcando il collo in quel tuo modo così sensuale.
“cosa ti aspettavi?”
“niente di più di tutto questo.”
“sei entrato nella mia vita in punta di piedi.”
“eppure mi sento come un elefante in una cristalleria.”
“non farlo.”
“è più forte di me.”
“non farlo.”
“ti ho portato un regalo.”
“davvero? cosa?”
“guarda.”
“oh. un uovo di vetro…”]

solitario, nascosto in un angolo, appoggiato su un tavolo di legno scuro e tarlato, un vecchio libro attira la mia attenzione, come se mi chiamasse, mi invocasse nel silenzio. lo prendo in mano, incuriosito. è un tomo pesante e consunto; soffio via la polvere dalla copertina, ne osservo l’immagine, leggo il titolo (guilielmi harvei - exercitationes de generatione animalivm). e d’improvviso ci sprofondo.

[dopo cena, a casa mia. le finestre sono aperte, entra l’aria fresca della notte. dopo il caffè, fumiamo una sigaretta, guardandoci negli occhi.
“a che pensi?”
“che è tutto così strano.”
“cosa? cosa è strano?”
“io e te, qui.”
“guardo dietro di te, dietro le tue spalle, perché voglio vedere dove sono i fantasmi. non li vedo, ma so che ci sono. scaccia quei maledetti fantasmi.”
“di che parli?”
“ti voglio baciare.”
“baciami.”
“voglio fare l’amore con te.”
“facciamolo.”]

il poderoso zeus, la barba folta e i capelli scompigliati, indosso un ampio chitone e una corona in testa, siede ieratico su di un plinto e regge, con la mano sinistra, un uovo. mi vede, in lontananza, mi fissa, mi guarda negli occhi (coi suoi occhi quasi tristi, di una tristezza antica e profonda), mi legge nel pensiero, mi riconosce. ha un attimo d’esitazione, accenna un sorriso (o così mi pare), aggrotta la fronte ma poi, senza scomporsi, lentamente, con la destra, solleva la metà superiore del guscio. è un’espressione di finto stupore, la sua, di paura attesa, di meditato parto, di noia superiore, quasi, quando da dentro l’uovo sgorga la vita (nelle sembianze di: un minuscolo essere umano, un fiore, una farfalla, un uccello, un ramo, un cervo, una lucertola, un ragno, un grillo, un serpente. e un pesce). ex ovo omnia.

[la prima luce dell’alba, attraverso le tende. noi due abbracciati e nudi, stanchi, sudati, a letto. la tua testa appoggiata al mio petto, ti accarezzo i capelli. in una mano stringi ancora l’ovetto di vetro soffiato. lo guardi, sospiri.
“devo andare, ora.”
“come, devi andare?”
“ho la mia vita che mi aspetta.”
“falla aspettare ancora un po’. e poi ci sono io, adesso.”
“no, non hai capito.”
“cosa non ho capito?”
“non hai capito.”
“adesso che ti ho trovata, non ti lascerò andare così facilmente.”
“tu non mi hai trovata, sono io che ho trovato te. ma ora ho bisogno di pensare a me stessa, di dedicarmi alla mia vita, ai miei problemi, ai miei sogni.”
“ma…”
“niente ma. avevo solo bisogno di passarti attraverso.”]

mi risveglio. e penso a quando incontrai eugenides, che mi svelò che non è vero che la citazione ex ovo omnia è tratta dalle metamorfosi di ovidio. che se lo inventò così, per pura suspension of disbelief. e per la dolorosa necessità di illuminare di senso ciò che evidentemente senso non ha.

giovedì 13 ottobre 2011

l’uovo cosmico


mi piacciono gli inizi, i principi; sanno di rugiada, di pane appena sfornato, di occhi stropicciati.

[“mi ricordo quando mi hai afferrato la mano, in mezzo alla gente. non me l’aspettavo.”
“mi è venuto spontaneo. e poi non ci vedeva nessuno. tu però l’hai subito ritirata, stronzo.”
“mi pareva fuori luogo e ero imbarazzato. ci conoscevamo da due ore.”
“e allora?”
“vuoi sempre avere ragione tu, vero?”
“io ho sempre ragione.”]

e mi hanno sempre affascinato le cosmogonie (a volte mi accusano di essere sadico, di usare volutamente un linguaggio pesante e ricercato. ma io sono così, una pregna parolona di quattro lettere), le storie di creazione.

[“ho dovuto farti ubriacare, per riuscire a portarti a letto.”
“mi avevi appena detto che eri fidanzata.”
“sei sempre stato così serio.”
“è nella mia natura del cazzo.”
“mi sei piaciuto da subito per quello, comunque. ti dovevo assolutamente avere, mi parevi così irraggiungibile.”
“io?”
“sì, tu.”
“un’altra preda per la tua collezione.”]

la storia della mia genesi è una storia semplice.
ricordo tutto molto bene, anche se non ci vedevo (che forse non avevo gli occhi, o ancora non li sapevo usare). non c’era nulla, e vagavo insensato nel buio denso della notte, aspettando che succedesse qualcosa, che qualcuno mi deponesse. nessun rumore, nessun colore, nessun odore. non vedendo, ho solo percepito, ovattato, un battito di ali nere. maternamente mi hanno afferrato artigli. come alito antico, poi, ho sentito il vento freddo del nord. e lì, nell’utero dell’oscurità, cullato dalla perfetta inconsistenza spazio-temporale, mi hanno lasciato embrionale e argenteo, a covarmi da solo.

[“e la scena della metropolitana.”
“la scena della metropolitana. come in un film.”
“potevi scegliere. andare a destra o sinistra, a casa o con me.”
“la gente intorno a noi, che ci passava accanto, migliaia di persone avanti e indietro, su e giù dalle scale mobili. i treni che arrivavano, si fermavano, ripartivano. ma io non sentivo nulla. immobile, vedevo solo i tuoi occhi.”
“io vedevo solo le tue labbra.”
 “ero combattuto, sai? sapevo esattamente cosa sarebbe successo. ho visto il futuro, ma ho scelto la tua bocca.”
“ne sei pentito?”
“sì, decisamente. no, decisamente.”]

sorrido, di un sorriso senza braccia e senza mani. mi riapproprio, così, della mia nascita. e idealmente cammino, a tratti deciso, a tratti più traballante, su una fune tesa tra due opposti.

[“se le cose stanno così, ci devo ripensare.”
“a cosa devi pensare, che fino a ieri hai detto che mi ami?”
“ma se le cose stanno così.”
“capisco. se le cose stanno così. come stanno esattamente, le cose?”
“che avevo un’idea diversa, del nostro futuro. ma se le cose stanno così.”]

sono una trasposizione, un transito. ho molti nomi e molte facce.
non sono solo un uovo. sono la luce dentro la luce.

lunedì 10 ottobre 2011

la quadratura dell’uovo


ho scritto un uovo.
ai vecchi tempi, quando ancora si usavano carta e penna, l’avrei disegnato (o almeno ci avrei provato, che non mi chiamo giotto).
e allora l’ho scritto. senza rendermene conto, ho visto la parola, lì, nero su bianco, impressa nitida e semplice su milioni di pixel. l’ho guardata e rimirata, nella sua forma sostantiva.
una u capiente (decisamente minuscola) e la prima o, poi quella v che è un po’ come un inferno inguinale prima dell’altra ovoidale o.

[“lo sai che ci giri sempre intorno?”
“boh. non ci ho mai pensato. può essere.”
“è così difficile, per te, arrivare al dunque?”
“dipende se è tanto lontano, questo dunque. che sono bradipo e non mi va di camminare a lungo.”
“sto parlando seriamente…”
“anche io.”]

ho scritto uovo, senza sapere dove l’uovo sarebbe potuto andare a parare.
ho scritto uovo, e mi ci sono immediatamente immedesimato.
io che: sono un uomo. sono nuovo. sono un uovo. io che, in fondo, parlo ma ancora non sono nato (questo è un omaggio, i pensieri non sono miei; sono mie le parole, sono mie le sinapsi): una contraddizione in termini, tutto e il contrario di tutto.

[“ti potrei rovinare la vita. ma non mi va di farlo, perché ti amo.”
“tocca a me?”
“cosa?”
“la battuta. è il mio turno, sul tuo copione? perché il mio è sbiadito e non riesco a leggerlo bene.”
“fanculo. sì, tocca a te.”
“me l’hai già rovinata da tempo.”]

avrei voluto che l’uovo avesse una trama, un tessuto, un testo, invece non ce l’ha, per ora (che la sua trama è l’universo).
avrei voluto inquadrarlo, l’uovo, fissarlo in un quadro (tridimensionale, come corpi che dalla tela vogliono uscire per urlare la loro presenza, la loro esistenza, la loro vita), nella sua essenza d’opera d’arte, bellezza perfetta e ineffabile. impossibile, la quadratura dell’uovo.

[“perché non dormi?”
“perché mi batte il cuore.”
“mi ferisci, così.”
“il cuore è mio.”]

in quanto uovo, devo essere covato per essere scovato.

sabato 9 aprile 2011

voices

all'inizio c'erano le parole di Walt Whitman:

NOW I make a leaf of Voices—for I have found nothing mightier than they are,
And I have found that no word spoken, but is beautiful, in its place.
O what is it in me that makes me tremble so at voices?
Surely, whoever speaks to me in the right voice, him or her I shall follow,
As the water follows the moon, silently, with fluid steps, anywhere around the globe.

All waits for the right voices;
Where is the practis’d and perfect organ? Where is the develop’d Soul?
For I see every word utter’d thence, has deeper, sweeter, new sounds, impossible on
     less
           terms.

I see brains and lips closed—tympans and temples unstruck,
Until that comes which has the quality to strike and to unclose,
Until that comes which has the quality to bring forth what lies slumbering, forever ready,
     in
         all
              words