non so bene come dirlo.
è tutto il giorno che ci penso, ma non riesco a trovare le parole giuste. non è una bella sensazione, quella di non sapersi spiegare. non so se è stanchezza, o fame, o se sto ascoltando la musica sbagliata, o scrivo troppe volte non, e forse non è una caso, e ho finito anche il gelato. ma che importa, c’è tanto rumore attorno e è il momento giusto per passare inosservati.
e quindi mi viene una cosa tipo: sono i sogni che ci sognano.
[“è impossibile sognare qualcosa che non conosci”
“eppure eri lì, e ti sognavo”]
chi l’avrebbe mai detto. che era un’estate senza estate, che passiamo i giorni a contare i giorni, e le sigarette, e i sorrisi. un paio di candele e i múm in sottofondo, con i loro suoni piccoli e i fantasmi sulla schiena. fuori è già buio, e mica è facile raccontarsi, senza cadere nel banale, senza distogliere lo sguardo o avere momenti d’esitazione. raccontarsi, alla fine, è un incedere matematico, una somma di sottrazioni, sperando che tutto torni.
e poi mi viene un’altra cosa tipo: i sogni sanno tutto di noi, e noi niente di loro.
[“a cosa pensi?”
“a niente”
“impossibile”
“a cosa pensi”]
abbiamo tutto il tempo davanti e le soluzioni lì, a portata di mano. solo che non sappiamo vederle, o forse a volte sì, come adesso che c’è quella canzone che parte piano, col violino, il carillon, e la malinconia. e allora è tutto più chiaro, così luminoso che fa quasi male agli occhi.
ed è una cosa tipo: siamo quello che sogniamo.
[“se mi guardi così, smetto d’inventarti”]
quindi non ho una risposta, una conclusione, una certezza, se non una cosa tipo: basterebbe sapere farsi sognare.
giovedì 28 agosto 2014
giovedì 21 agosto 2014
venezia
oggi sono tornato a venezia.
che come sempre è un come se.
come se fosse rimasta lì, ad aspettarmi. come se non fossimo cambiati, e non avessimo disimparato a guardarci, o imparato ad avere paura. come se sapessimo fingere benissimo che tra noi non ci sono fantasmi.
[“perché non resti?”
“perché non mi va di appartenere”
“perché queste bugie?”
“perché le bugie sono verità bellissime”]
una notte di stelle cadenti, e di all i need degli air nell’aria calda. che è sempre la stessa da sedici anni, e poi vuoi non chiamarla attesa. ricordo perfettamente quando l’ho sentita per la prima volta, ricordo tempo, luogo e occhi. e anche adesso, ancora, dopo tutte queste scie di rumore, gioie e ferite, faccio una fatica enorme a non crederci. c’è chi darebbe un nome a tutto ciò, e chi di nomi si è stufato.
[“quindi vorresti dirmi che preferisci il silenzio?”
“quindi voglio dire che alcune parole non hanno più senso”
“torneranno”
“acciaccate”]
voglio solo dormire un po’, invece di raccontarmi resoconti.
che come sempre è un come se.
come se fosse rimasta lì, ad aspettarmi. come se non fossimo cambiati, e non avessimo disimparato a guardarci, o imparato ad avere paura. come se sapessimo fingere benissimo che tra noi non ci sono fantasmi.
[“perché non resti?”
“perché non mi va di appartenere”
“perché queste bugie?”
“perché le bugie sono verità bellissime”]
una notte di stelle cadenti, e di all i need degli air nell’aria calda. che è sempre la stessa da sedici anni, e poi vuoi non chiamarla attesa. ricordo perfettamente quando l’ho sentita per la prima volta, ricordo tempo, luogo e occhi. e anche adesso, ancora, dopo tutte queste scie di rumore, gioie e ferite, faccio una fatica enorme a non crederci. c’è chi darebbe un nome a tutto ciò, e chi di nomi si è stufato.
[“quindi vorresti dirmi che preferisci il silenzio?”
“quindi voglio dire che alcune parole non hanno più senso”
“torneranno”
“acciaccate”]
voglio solo dormire un po’, invece di raccontarmi resoconti.
domenica 10 agosto 2014
pietre
mi passava tra le orecchie magic doors dei portishead, c’è una luna piena e gialla, siamo quasi a metà agosto, e volevo parlare di desiderio. della sua geografia, della sua voce che non si riesce a nascondere, del suo esplodere lento.
volevo parlare di desiderio, e di quello che non siamo mai stati e che saremo. invece penso alle pietre.
[“andiamo a letto?”
“sì, ma non chiudere la porta”
“perché?”
“non riesco a dormire con la porta aperta. potrebbero entrare i fantasmi”]
ho questa mania di tenere sempre una pietra in tasca.
ne ho parecchie, di diversi tipi e colori, e ogni tanto ne scelgo una a caso e la porto con me. così, una cosa come un’altra, una specie di rassicurazione, una presenza, un momento di sollievo.
una pietra, un nome che ti scivola sulla lingua e un sapore che ti resta in bocca.
[“ti ho portato una cosa”
“cosa”]
ne avevo una a cui tenevo tantissimo. era la mia preferita, un’acquamarina, un po’ azzurra e un po’ verde, un po’ trasparente. un po’ me. ma qualche giorno fa l’ho persa, non so dove. so solo che era in tasca, come sempre; e poi, quando ci ho infilato la mano per toccarla, come ormai faccio abitualmente, come un gesto incondizionato, non era più lì.
l’ho cercata dappertutto: a casa, in macchina, al lavoro, nelle tasche dell’universo, tra le pagine dei libri, nelle parole dimenticate. ma niente, non c’era più.
e adesso mi immagino la sua geografia, la sua voce che non riesce a nascondermi, il suo esplodere lento.
[“ogni giorno ti dimentichi di quanto bello sei”
“e allora tu ogni giorno ricordamelo”]
forse un giorno, mentre aspetto, da un momento all'altro, sarà lei a ritrovarmi.
volevo parlare di desiderio, e di quello che non siamo mai stati e che saremo. invece penso alle pietre.
[“andiamo a letto?”
“sì, ma non chiudere la porta”
“perché?”
“non riesco a dormire con la porta aperta. potrebbero entrare i fantasmi”]
ho questa mania di tenere sempre una pietra in tasca.
ne ho parecchie, di diversi tipi e colori, e ogni tanto ne scelgo una a caso e la porto con me. così, una cosa come un’altra, una specie di rassicurazione, una presenza, un momento di sollievo.
una pietra, un nome che ti scivola sulla lingua e un sapore che ti resta in bocca.
[“ti ho portato una cosa”
“cosa”]
ne avevo una a cui tenevo tantissimo. era la mia preferita, un’acquamarina, un po’ azzurra e un po’ verde, un po’ trasparente. un po’ me. ma qualche giorno fa l’ho persa, non so dove. so solo che era in tasca, come sempre; e poi, quando ci ho infilato la mano per toccarla, come ormai faccio abitualmente, come un gesto incondizionato, non era più lì.
l’ho cercata dappertutto: a casa, in macchina, al lavoro, nelle tasche dell’universo, tra le pagine dei libri, nelle parole dimenticate. ma niente, non c’era più.
e adesso mi immagino la sua geografia, la sua voce che non riesce a nascondermi, il suo esplodere lento.
[“ogni giorno ti dimentichi di quanto bello sei”
“e allora tu ogni giorno ricordamelo”]
forse un giorno, mentre aspetto, da un momento all'altro, sarà lei a ritrovarmi.
venerdì 1 agosto 2014
agosto
è iniziato anche agosto, che mi fa pensare ad una canzone di samuele bersani, che mi fa pensare ad un’altra canzone di samuele bersani. a quelle cose a cui vuoi credere, con ostinazione, con il ritmo lento e sincopato della speranza. come un’immagine immobile, fissa nella testa, di quello che sarebbe potuto essere, e invece pare ci sia il sole e mi tremano le dita.
e allora infilo gli occhiali, accarezzo l’accendino, il lago è blu, e aggiusto le parole. facendo un po’ finta di non essere me, ma non so quanto resisto.
[“hai ascoltato quella canzone che ti dicevo?”
“vorrei rubarti gli occhi”
“ma l’hai ascoltata?”
“no, l’ho fatta diventare il tuo odore”]
il vento è caldo, a tratti, e canta una canzone al contrario. c’è il rumore della lavatrice, delle porte che sbattono, e di tutto quello che ancora sto aspettando. e resta, nel frattempo, un’ennesima correzione, una mano sulla spalla, uno sguardo che ti legge dentro e ti fa capire che sei bello, non tanto, tantissimo.
[“e tu pensi che tutto questo sia poco?”
“forse non è poco, ma non so a cosa serve”
“è come se mi mancasse un pezzo di pelle”
“è come saperti e non averti”]
c’è che, in fin dei conti, ci si perde piano, tra la paura di scappare, la certezza di prendere la decisione migliore, la differenza tra guardarsi e cercarsi, il dubbio di fare il peggiore degli sbagli. insomma, quelle cose luminose e grandi come l’universo, come il più potente dei déjà vu, di quelli con tutti gli accenti al posto giusto.
[“che vuoi che sia, è solo un istante”
“sì, è solo un istante”
“e poi io che ne so”
“e poi non dovresti disimparare a non capirmi”]
il vento fischia, la lavatrice è finita, le porte continuano a sbattere, in sottofondo unspoken dei four tet fa bene all’anima. e io sto fermo, non mi muovo.
[“è che a volte succedono cose più grandi di noi”
“e allora tu mangiale”]
quanto è dolce l’amarezza.
e allora infilo gli occhiali, accarezzo l’accendino, il lago è blu, e aggiusto le parole. facendo un po’ finta di non essere me, ma non so quanto resisto.
[“hai ascoltato quella canzone che ti dicevo?”
“vorrei rubarti gli occhi”
“ma l’hai ascoltata?”
“no, l’ho fatta diventare il tuo odore”]
il vento è caldo, a tratti, e canta una canzone al contrario. c’è il rumore della lavatrice, delle porte che sbattono, e di tutto quello che ancora sto aspettando. e resta, nel frattempo, un’ennesima correzione, una mano sulla spalla, uno sguardo che ti legge dentro e ti fa capire che sei bello, non tanto, tantissimo.
[“e tu pensi che tutto questo sia poco?”
“forse non è poco, ma non so a cosa serve”
“è come se mi mancasse un pezzo di pelle”
“è come saperti e non averti”]
c’è che, in fin dei conti, ci si perde piano, tra la paura di scappare, la certezza di prendere la decisione migliore, la differenza tra guardarsi e cercarsi, il dubbio di fare il peggiore degli sbagli. insomma, quelle cose luminose e grandi come l’universo, come il più potente dei déjà vu, di quelli con tutti gli accenti al posto giusto.
[“che vuoi che sia, è solo un istante”
“sì, è solo un istante”
“e poi io che ne so”
“e poi non dovresti disimparare a non capirmi”]
il vento fischia, la lavatrice è finita, le porte continuano a sbattere, in sottofondo unspoken dei four tet fa bene all’anima. e io sto fermo, non mi muovo.
[“è che a volte succedono cose più grandi di noi”
“e allora tu mangiale”]
quanto è dolce l’amarezza.
Iscriviti a:
Post (Atom)