venerdì 20 febbraio 2015

inventare un desiderio

i may not understand now but then again
you could talk to me or we could just sit here and daydream

me’shell ndegeocello – two lonely hearts (on the subway)


è stata un’altra settimana lunga, di quelle che racconteresti tutto, ma la tieni tra le cose che non dici a nessuno, e stasera fuori c’è nebbia.
quando vorrei non avere tutto questo tempo per me, alzo la musica, sospiro, fisso un punto inutile del muro, mi preparo un caffè, e trovo una scusa qualsiasi per non pensare. che invece è proprio quello che devo fare quando decido di sedermi qui, a raccontarmi, ad aspettare, o a inventare un desiderio.

[“posso dirti una cosa?”
“mi piace quando ti racconti senza che io te lo chieda”]

metto un vecchio cd di me’shell che non ascoltavo da tempo, e faccio fatica a riconoscermi, come facevo fatica a riconoscermi l’altro giorno, dopo che mi sono tagliato la barba. capita, ogni tanto, di fare delle cose che non vogliamo, ma non abbiamo scelta, e allora quando ci guardiamo ci sembra di non sapere più chi siamo, e ricominciamo un po’ a volerci bene e a raccontarci.

[“hai fretta?”
“no”]

e ci vogliamo bene anche se non sappiamo cosa succederà, anche se siamo stufi di aspettare. che a forza di parlarci addosso ad alta voce, sotto la doccia, mentre guidiamo, appena svegli o prima di andare a dormire, quando ci distraiamo dal mondo, non facciamo che confonderci le idee. più cerchiamo di spiegarci, più ci confondiamo. allora non resta che aspettare.

[“dove sei?”
“sono uscito a immaginarti”]

non resta che aspettarci, e inventare un desiderio.


giovedì 5 febbraio 2015

si impara a non scappare

stand a little from your hand,
broken birdie lost his voice

múm – the ballad of the broken birdie records

uno dei miei buoni propositi per l’anno nuovo era quello di pensare un po’ anche al mio corpo, e non solo alla mente. e quindi, da circa un mese, ho ricominciato a fare yoga, dopo anni da quando ero a venezia, durante il dottorato.
l’altra sera, verso la fine della lezione, come al solito, ci siamo messi a meditare e, mentre ero sdraiato a terra, con gli occhi chiusi e il respiro sempre più profondo e regolare, e l’istruttore ci diceva di lasciare tutti i problemi e i pensieri fuori dalla stanza, ho iniziato a fare un viaggio pazzesco, di quelli che ero lì ma anche da un’altra parte, che ero immobile ma mi sembrava di nuotare.

[“ciao”
“ciao”
“stai bene?”
“penso di sì”]

poi, dopo una decina di minuti, quando ero in macchina e stavo tornando a casa, con ancora sulle labbra il sorriso stupido di chi ha visto qualcosa che non ha capito e non si sa spiegare, ma va bene così, all’improvviso, pesante, da dietro un angolo buio, mi è saltato addosso un vecchio ricordo, e non me lo aspettavo, cazzo, non in quel momento, e mi voleva strangolare, e il cuore si è messo a bestemmiare.

[“e tu?”
“penso che pensavo di conoscerti”]

mi sono ritrovato seduto a un tavolo, sul palco di un teatro di venezia, con un microfono davanti, e avevo appena finito di esporre il mio lavoro a colleghi e professori. più o meno dieci anni fa, una fredda giornata di febbraio, come oggi, o forse era novembre. è passato tanto tempo, tante cose le ho cancellate, e il ricordo di quel pomeriggio è molto vago. però ho rivisto di fronte a me quelle due o tre facce distorte che mi parlavano, e mi chiedevano cose che non c’entravano nulla, e non capivo, perché non c’era niente da capire, mi volevano semplicemente mettere in difficoltà, per il puro gusto di farlo, e si guardavano sorridenti, quasi compiaciute, e la voce mi tremava un po’, all'inizio, e poi non ho avuto altra scelta che stare zitto. e ho rivisto le altre facce, quelle che mi guardavano e si guardavano incredule, e non capivano cosa stava succedendo, e provavano a sorridermi, ma non dicevano nulla.

[“è passato tanto tempo”
“o siamo noi che l’abbiamo fatto passare”]

arrivato a casa, davanti allo specchio, mi sono guardato negli occhi, ero immobile ma mi sembrava di nuotare, e ho pensato che solo con il tempo si impara a non scappare.