e quante volte dovrò dire,
che mi dispiace, ma devo andare
andrea nardinocchi – un posto per me
stamattina mi hanno chiamato a controllare una cosa in una camera, al quarto piano. ho preso il telefono portatile, il passepartout, una penna, che non si sa mai, ci potrebbe sempre essere bisogno di scrivere qualcosa, e sono entrato in ascensore.
quattro piani, io che mi guardavo allo specchio, una specie di silenzio irreale, e il tempo che per un attimo non era più tempo.
[“dove sei?”
“dove vuoi”]
succede che quando ci guardiamo tanto, non ci riconosciamo più, o ci dimentichiamo; che quando non facciamo altro che cercarci, alla fine ci perdiamo. succede così, e quasi non ce ne accorgiamo. succede che vorremmo avere un posto nostro, e invece sembra che ci resti solo nebbia negli occhi. come oggi, anche se era una giornata di fine maggio e c’era il sole e il cielo era deciso.
[“non è così semplice”
“non ho mai pensato che lo fosse”]
sembra che ci resti solo una gran confusione, come quando non riusciamo a decidere che musica ascoltare, o non abbiamo voglia di capire quello che ci dicono. come quando sappiamo benissimo che stiamo sbagliando, che non dovremmo buttare via il nostro tempo e la luce dei desideri, ma sappiamo anche che per ora va bene così, si tratta solo di lasciarci passare.
[“ma quindi, alla fine, cosa sei?”
“un posto per te”]
si è aperta la porta dell’ascensore, al quarto piano. un’occhiata veloce agli occhi, e sono uscito.
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